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GANG – Calibro 77

di Paolo Crazy Carnevale

20 agosto 2017

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GANG – Calibro 77 (Rumble Beat/Sony 2017)

Ah, che bel disco questo! Ho sempre amato i Gang, pur non avendo seguito tutta la loro carriera ho sempre pensato che si trattasse di un gruppo con la giusta onestà intellettuale e musicale.

I fratelli Severini, che di fatto sono i Gang almeno da un po’ d’anni in qua, anche se poi dal vivo sono sempre accompagnati da bravi e solidi musicisti, non si sono mai piegati alle mode e al mercato, sono sempre andati avanti diritti, a muso duro – come avrebbe detto Pierangelo Bertoli.

Se devo essere sincero, quando un paio di anni fa era uscito Sangue e cenere – prodotto come questo Calibro 77 dall’incomparabile Jono Manson – l’avevo ascoltato a scatola chiusa, sulla fiducia, ed ero rimasto un po’ deluso: non che fosse un disco brutto, per carità, ma troppo incensato e osannato, descritto come diretto discendente di dischi come Storie d’Italia. Secondo me non lo era, per quanto la produzione fosse ottima forse le canzoni non erano tutte all’altezza del capolavoro a cui veniva comparato.

Calibro 77 è un disco di cover. Cosa che di solito denota una crisi compositiva o mancanza d’ispirazione che dir si voglia, almeno nella maggior parte dei casi (pensiamo a Moondog Matinee di The Band). Non è certo il caso dei Gang, le cover – tutt’altro che casuali – sono tutte rilette in stile Gang, come se a scriverle fossero stati Marino e Sandro Severini! Scusate se è poco!

Ogni brano viene pescato dal repertorio della canzone d’autore italiana degli anni settanta, quella impegnata, quella legata alle tematiche del post sessantotto, agli anni di piombo, ai movimenti operai e a quelli studenteschi.

Stavolta, la produzione di Manson mette insieme un gruppo tutto americano per suonare queste canzoni tipicamente italiane per quanto riguarda le tematiche, apparentemente un azzardo, ma l’esperimento è riuscito, in pieno. D’altra parte la canzone d’autore del Bel Paese deve non poco a quella d’Oltreoceano e quindi l’accostamento musicale tramite strumentazioni country o comunque folk/rock non poteva che dimostrarsi vincente. Se Manson in questo genere di cose è un genio, i Severini non sono da meno e Marino con la sua voce unica riesce a dare una continuità a brani che provengono dagli autori più disparati, dai classicissimi Guccini e De André al giovane De Gregori, a Bennato, Della Mea, Manfredi.

Con le chitarre elettriche sempre ruggenti di Manson e di Sandro Severini, troviamo tra le tracce del disco le percussioni di Wally Ingram, le splendide tastiere di Jason Crosby, rinomatissimo e richiestissimo turnista, che passa con facilità estrema dal piano rockabilly di Uguaglianza, scatenato brano denso di ironia composto da Paolo Pietrangeli nel 1970, al suono hammond che fa da sostegno ad una bella versione della deandreiana Canzone del maggio, rubata a Storia di un impiegato, imprescindibile capolavoro del 1973.

Azzeccatissimo il brano d’apertura, la bella Sulla strada di Eugenio Finardi, uno che con la musica americana ci è sempre andato a nozze come testimonia l’arrangiamento qui sfoderato da Manson e soci. Io ti racconto è di Claudio Lolli, lo si capirebbe anche se non ci fosse scritto nel booklet, intrisa di tristezza e pessimismo, come sempre, in Lolli. eccessivi ed irreversibili.

Molto meglio – la colpa non è certo dei Gang – il brano successivo, omaggio a Francesco De Gregori con una poco conosciuta ma sempre bella Cercando un altro Egitto. Con Questa casa non la mollerò di Ricky Gianco è America a tutto tondo, i Severini, Manson e soci riportano tutto a casa – come direbbe Dylan – visto e considerato che la musica su cui Gianco e Gianfranco Manfredi hanno scritto il testo non è altro che Six Days On The Road un classico country-rock.

Sebastiano proviene invece dal repertorio di Ivan Della Mea, uno dei patriarchi del cantautorato impegnato e proletario mentre Venderò è una ballata di Bennato che credo tutti abbiano ascoltato almeno una volta, l’arrangiamento è molto rispettoso dell’originale, ballata era e ballata rimane, con Jason Crosby che alle tastiere aggiunge un pregevole intervento al violino. Per l’accostamento a Guccini, di cui si ripesca la vecchia Un altro giorno è andato, viene eliminato l’andamento folkie alla Dylan prima maniera ed il brano viene rallentato e cantato da Marino con ispirazione, il crescendo creato da Crosby con piano e hammond fa da sfondo all’innesto di una serie di chitarre elettriche molto azzeccate suonate da Sandro, Jono, Scott Rednor e dalla slide di Jay Boy Adams.

La chiusura del disco è affidata alla conosciuta Ma non è una malattia, registrata nel 1976 da Gianfranco Manfredi e qui rivestita di swing con tanto di fiati, e ad un brano poco noto di Giorgio Gaber,I reduci, del medesimo anno, molto intensa, bella, ancora con le tastiere di Jason Crosby a fare da protagoniste con la voce di Marino che pare fatta apposta per cantare queste cose. Una conclusione azzeccatissima per un disco da ascoltare e riascoltare, prodotto in casa grazie al supporto di un considerevole crowdfunding dei numerosi fan sparsi per la penisola. Una menzione comunque credo vada anche alla Sony italiana che si è comunque accollata la distribuzione di un disco così lontano dagli obiettivi abituali della major multinazionali interessate solo al soldo.