OSBORNE JONES – Only Now
Osborne Jones – Only Now (Continental Song City/IRD 2016)
Un country singer? Un duo? Una band? La confusione è dettata dal fatto che di qualunque cosa si tratti il nome sembra quello di un solista: a ben vedere però il cantante di questo disco è indicato nel booklet come David-Gwyn Jones e più avanti troviamo un chitarrista di nome David Osborne, il che fa passare alla conclusione più logica, vale a dire che Osborne Jones sia un duo o quanto meno un gruppo che trae il nome dai cognomi dei due personaggi principali, tesi avvalorata dal fatto che nel booklet l’unica foto ritrae solo due persone, di età intorno ai 45-50 anni.
Parlavo in apertura di musica country, genere in cui l’etichetta olandese responsabile del disco è specializzata, country ben suonato anche se non particolarmente entusiasmante o originale stavolta, devo ammettere che le proposte della Continental Song City mi avevano viziato in precedenza (con Wink Burcham e Carter Sampson) e questo disco molto sdolcinato mi ha un po’ deluso. Per carità, il cantante è ottimo, e in alcuni brani, come la title track e You Used sono riscontrabili alcune apprezzabili similitudini con l’Elvis Presley più country. Quello che manca sono decisamente le liriche: qui si ripercorrono le orme sonore della scuola texana dei singersongwriter filtrata attraverso l’imprescindibile country di Bakersfield (il disco è inciso in California), ma a lungo andare le dieci canzoni d’amore che compongono il disco rischiano davvero di far venire il diabete.
La produzione è affidata a Rick Shea, non a caso uno che col sound di Bakersfield ha legami profondi, come del resto il chitarrista Pete Anderson, presente su You Used, ma troviamo ospite anche il mitico Jerry Donahue e in tre brani il batterista Don Heffington. Bene escono senz’altro i suoni delle chitarre, che siano quelle degli ospiti o quelle del produttore, che passa con disinvoltura dall’elettrica, alla pedal steel, all’acustica al mandolino, ma la cosa non va oltre.
La copertina non aiuta ad invitare all’acquisto; oltre ai brani citati non è male l’iniziale Down In Austin, ma dopo poche canzoni il disco non riserva ulteriori sorprese. Peccato.
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