PUSS’N'BOOTS – No Fools, No Fun

puss'n'boots

PUSS’N’BOOTS
No Fools, No Fun
(Blue Note 2014)

Talvolta, per fortuna, capitano tra capo e collo dei dischetti come questo: semplice, senza pretese, quasi fatto in casa – nonostante la presenza di una soggetta della portata di Norah Jones, che, detto per inciso piace molto di più quando si lancia in questi progetti che non quando fa la cantante un po’ laccata e di cassetta – ma al tempo stesso fresco, godibile, onesto. Mi piacciono già dal nome queste Puss’n’Boots, non hanno il phisique du rôle aggressivo delle Pistol Annies o l’esperienza artistica del Trio di Emmylou Harris, Linda Ronstadt e Dolly Parton, ma il loro debutto, per quanto casuale nel suo assemblaggio, è un disco che va bene per ogni occasione, sia che si voglia avere della musica da viaggio, da canticchiare sotto la doccia o più normalmente della musica da ascoltare con attenzione.
Musica americana nella più classica accezione del termine, piedi ben piantati in certe radici ma anche composizioni originali tutt’altro che disprezzabili. E ve lo dice uno che i dischi al femminile li apprezza a piccole dosi e, anzi, solitamente storce il naso al cospetto del proliferare di cantanti donne.
Non solo, queste tre signore oltre a cantarsi le canzoni, in buona parte a scriversele, se le suonano anche. Dalle note di copertina – bella confezione in cartoncino con appunti essenziali –apprendiamo infatti che oltre a loro non c’è assolutamente nessun altro a suonare, la Jones oltre che a cantare s’impegna anche con l’elettrica ed il violino, Sasha Dobson canta, suona l’acustica, il basso e la batteria, Catherine Popper canta e suona basso e chitarra acustica. E tutto fa supporre che il trio si sia occupato anche della produzione.
Dodici brani di varia ispirazione, tre incisi dal vivo e gli altri in studio, qualche cover scelta con attenzione, un colpo di frullatore e via, il disco è servito: si inizia con Leaving London di Tom Paxton e Bull Rider di Rodney Crowell, belle, ma il disco decolla con Twilight, una cover tratta dal tardo repertorio di The Band, qui proposta in punta di piedi, con grande rispetto per l’originale, ma al tempo stesso con creatività. Molto convincente il primo originale del disco, firmato dalla Dobson, il cui titolo ironico è Sex Degrees Of Separation, ancor meglio il successivo, Don’t Know What It Means della Jones, che qui sembra quasi un’emula dei Lone Justice prima maniera. Dal repertorio di Neil Young c’è una bella versione live di Down By The River, azzeccatissima, non sarà un caso se il canadese le ha volute all’ultimo Bridge Benefit lo scorso ottobre.
Tarnished Love, sempre dal vivo, è forse il brano più roots del disco, con una chitarra baritonale. Dal repertorio dei Wilco viene pescata Jesus Etc. e mi sento di dire che la voce della Jones rende onore al brano (ammetto di non sopportare Jeff Tweedy, non abbiatevene a male). A firma della Popper arriva Always, il meno interessante dei brani originali, GTO è invece di Jeb Loy Nichols e non è particolarmente interessante. A chiudere il disco gli ultimi due brani originali, Pines, ancora della Popper, dall’arrangiamento minimale a base di chitarra pizzicata e violino, e You’ll Forget Me che conferma l’ottima vena d’autrice di Sasha Dobson, una sorta di slow swing roots, se il termine può rendere l’idea di un brano dalle fumose atmosfere da jazz club suonato però con una chitarra in bilico tra fuoco di bivacco e inflessioni baritonali di tutt’altra natura.
Provate ad ascoltarlo questo disco, senza chiedergli niente, vedrete che sarà lui a darvi…

Tags:

Non è più possibile commentare.