Greetings from Australia…
di Marco Tagliabue
6 settembre 2010
Australia, frontiera inesplorata, terra di grandi distanze e di smisurati orizzonti interiori.
Ci fu un periodo, più o meno a cavallo della metà degli anni ottanta, in cui il Signore della Sei Corde sembrò aver diretto il suo raggio di luce più intenso proprio sulla Terra dei Canguri: una facile previsione per la nuova terra promessa di un rock sempre più stanco dei circuiti tradizionali.
In principio furono Saints e Radio Birdman a tracciare, attraverso il recupero delle sonorità malate di Stooges e MC5, una ideale linea rossa con la nascente scena punk dei paesi anglosassoni, poi fu la volta, seppur in ambiti diversi, di Birthday Party e Nick Cave, Church e Celibate Rifles, Hoodoo Gurus e Go Betweens, Died Pretty e Dead Can Dance: sembrava insomma che qualsiasi produzione proveniente da quelle lande sterminate fosse destinata ad ascendere in breve tempo al luminoso firmamento del rock’n’roll.
Una scena fiorente e una manciata di dischi epocali: tanto bastò (e scusate se è poco..) a far convergere pubblico e critica su quelle latitudini con i toni enfatici della next big thing: ci volle invece molto di meno per seppellire in breve, con altrettanta facilità, il miracolo dell’Aussie rock sotto un carico eccessivo di aspettative troppo grandi e di sogni irrealizzabili.
Poi, sul finire della decade, venne il grunge con il mito delle cantine di Seattle e nessuno, ma proprio nessuno, sembrò più ricordarsi del Nuovo Continente e del suo sogno infranto.
Uno dei tanti della nostra musica, del resto.
Ciò che rimane e che nessuno può cancellare sono, appunto, quella decina di masterpieces, e, per quanto mi riguarda, una canzone in particolare…