Posts Tagged ‘Dakota Days’

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/8

di Marco Tagliabue

22 settembre 2010

OUT NOW! trasloca dalle pagine cartacee di Out Of The Darkness a quelle digitali di Rock & Pop. Ecco quindi la prima infornata di segnalazioni relative ad uscite più o meno recenti, ma sempre meritevoli, e sempre piuttosto defilate rispetto alla luce dei riflettori…

Tris d’assi in casa Glitterhouse. L’ormai storica label tedesca, che proprio nel 2010 registra il  ventennale della sua prima pubblicazione, sembra oltretutto essere tornata ormai stabilmente alle pubblicazioni nel formato a 33 giri, abbandonato più o meno dai tempi gloriosi della distribuzione europea dei dischi Sub Pop: un segnale, speriamo duraturo, di un cambio di prospettiva dettato da un rinnovato gusto del pubblico che, per una volta tanto, va nella direzione auspicata. Il tempo dirà se si tratterà di qualcosa di più del solito fuoco di paglia…

Wovenhand-Threshingfloor

Il primo squillo di tromba è per il nuovo album di Wovenhand, “The Threshingfloor”, il sesto capitolo di una discografia che si è costantemente mantenuta su livelli medio alti, con punte di assoluta eccellenza in lavori quali l’eponimo debutto del 2002 o il più recente “Consider The Birds”, anno di grazia 2004. Per l’occasione le strade di Wovenhand e Glitterhouse Records sono tornate ad incrociarsi e, considerato questo ed i precedenti risultati, c’è da augurarsi che il matrimonio non abbia altri appannamenti. Chi ha avuto modo di conoscere David Eugene Edwards attraverso la precedente, fondamentale esperienza dei 16 Horsepower, della quale Wovenhand è la naturale emanazione, e di assistere ad una delle esibizioni dal vivo nelle quali, con incredibile generosità, spalanca le porte della sua anima con un’intensità che rasenta la sofferenza, potrebbe tranquillamente di evitare di leggere le righe che seguono. La folgorazione con il carisma dell’artista, con la sua presenza scenica, con i toni salmodianti della sua voce enigmatica e sofferente, con la sua musica ora aspra, ora delicata, mai accomodante o facilmente classificabile, è di quelle immediate e destinate a lasciare un segno che difficilmente il tempo potrà scalfire: una traccia profonda che è pura spiritualità, afflato mistico che ciascuno può e deve leggere attraverso le proprie corde, al di là dei valori “tradizionali” della fede. Per tutti gli altri l’invito è di non perdere altro tempo e cominciare pure da questo, ottimo, “The Threshingfloor”, un disco in cui si placano sia gli eccessi elettrici del precedente “Ten Stones”, sia i canoni prettamente legati alla tradizione che ebbero la loro apoteosi nel glorioso “Folklore” dei 16 Horsepower e che hanno costellato la discografia del Nostro con una presenza più o meno evidente, più o meno costante, ma mai troppo ingombrante. In questo nuovo, appassionante capitolo della saga Wovenhand si respira l’aria, inedita, di una psichedelia etnica dalla matrice prevalentemente acustica: soffiano venti asiatici, latini, balcanici, mediorentali a condire le danze lente e sinuose, ricche di pathos e atmosfera, con le quali David conduce la propria musica a spasso fra le rovine del folk americano, lo stesso fra le pareti del quale hanno più volte cercato di ingabbiarlo, in una sorta di “day after” che lascia intravedere una nuova luce. La luce di una musica avara di facili concessioni al gusto del pubblico, una musica che elargisce in proporzione a quello che chiede, una musica che non appartiene ad alcun genere: che è Wovenhand e nulla più. Una delle musiche più sincere con le quali vi possa capitare di imbattervi: una splendida, incredibile cover di Truth dei New Order ne sembra essere suggello ideale.

Lilium-Felt

Quasi in contemporanea con l’album di Wovenhand è uscito anche “Felt”, il nuovo lavoro, il terzo se non andiamo errati, del progetto Lilium, dietro al quale si nasconde Pascal Humbert, già contrabbassista nei 16 Horsepower e negli stessi Wovenhand. Qualsiasi paragone fra le due realtà, sia in merito ai principi ispiratori che agli esiti artistici, sarebbe del tutto fuori luogo, ma gli amanti delle sonorità desertiche, soprattutto di quelle più quiete ed introspettive, non resteranno delusi da questo nuovo, affascinante viaggio. Coadiuvati dalle voci suggestive di Hugo Race e Kal Cahoone, Pascal ed il socio di sempre Bruno Green (il progetto, fra pause e ripartenze, è attivo fin dal 1984) ci guidano attraverso paesaggi aridi e spettrali per mezzo di sonorità scarne ed essenziali ricche di echi e profondissimi silenzi, di corde appena pizzicate e struggenti inserti di tromba, sovente screziate da qualche leggero sfrigolio elettronico, che rappresentano la colonna sonora ideale di un deserto che è anche interiore. Un disco difficile, destinato a pochi già in partenza, che Glitterhouse pubblica coraggiosamente e proprio per questo non merita di passare inosservato.

Dirtmusic-Bko

Se riuscite ad immaginare il deserto del Mojave, lo stesso nel quale muovono i sogni vagabondi dei Lilium, solcato dai venti dell’Africa sub sahariana ed animato dalle voci e dai colori di Timboctou, ed utilizzate la voce di Hugo Race quale raccordo fra le diverse coordinate geografiche e sonore, potreste riuscire in un primo, parziale tentativo di catalogazione del progetto Dirtmusic, che Chris Brokaw, Chris Eckman e lo stesso Race hanno condotto, con il recente “BKO”, ancora una volta per Glitterhouse, alla seconda prova sulla lunga distanza. “BKO” sta per Bamako, la capitale del Mali, città nella quale i Dirtmusic fanno ritorno per registrare un pugno di canzoni con il complesso tuareg dei Tamikrest un anno dopo la comune esperienza in un festival locale. Le jam comuni e l’utilizzo di strumenti tradizionali trasformano il materiale dei Dirtmusic che, pur mantenendo strutture e connotati tipicamente occidentali, nella fattispecie quelli della ruvida ballata elettrica younghiana con il deserto dell’Arizona sullo sfondo al posto dei laghi dell’Ontario, acquisiscono più o meno evidenti influssi etnici che ne mutano radicalmente la sensibilità. Il risultato è davvero di rilievo, anche e soprattutto perché alla base ci sono grandi canzoni. Il lasciapassare ideale per muovere il primo passo in questo universo affascinante potrebbe essere la cover di All Tomorrow Parties, il secondo brano della raccolta, abbastanza fedele all’originale nel canto e nella melodia, ma completamente stravolta sotto il profilo strumentale grazie all’incredibile tappeto percussivo ed ai sublimi innesti vocali di Fatimata Walet Oumar. Gli stessi che miscelano la sabbia dei due deserti stemperando meravigliosamente gli acidi umori elettrici della successiva, splendida Desert Wind. Nel mosaico di “BKO” c’è posto per tessere dai colori più tenui, nelle atmosfere vellutate e cristalline, nelle melodie dolci ed evocative di Ready For The Sign, Unknowable, Collisions o della conclusiva Bring It Home, e per le tonalità più accese di Lives We Did Not Live o dell’iniziale Black Gravity, con la quale i due umori si fondono nell’intercalare di una cantilena etnica fra le strofe del brano. Un matrimonio perfettamente riuscito anche nell’ottima, delicatissima Smokin Bowl. Da segnalare, infine, la presenza di un secondo dischetto, questa volta un DVD, con materiale visivo (una sorta di “make of” del lavoro oltre ai video di tre brani) e sonoro, con quattro bonus tracks inedite.

Dakota Days

Un altro connubio strano, ma perfettamente riuscito, è quello fra la sensibilità melodica, quasi classica, di Alberto Fabris, da anni nell’entourage del pianista Lodovico Einaudi dopo ormai remoti trascorsi indie-rock, ed il rigido schematismo teutonico del berlinese Ronald Lippok, già anima degli elettronici To Rococo Rot e dei più “umani” Tarwater. Dopo un incontro casuale i due hanno dato vita al progetto Dakota Days, che ha da poco pubblicato l’omonimo debutto per i tipi della label Ponderosa. Dodici canzoni di gran classe che sposano una “calda” matrice elettronica ai canoni di un pop rock di grande atmosfera e suggestione, e che hanno un profondo, splendido impatto nella bellissima voce di Re Mida Ronald Lippok. Una scaletta praticamente perfetta che cresce lentamente ascolto dopo ascolto, come è naturale, quasi doveroso, per brani che associano l’eleganza formale ad una sostanza che si sedimenta timidamente ma inesorabilmente. Si parte con una cover irriconoscibile di Slow, grande successo di Kyle Minogue, che perde ogni connotato mainstream e danzereccio per trasformarsi in un brano lento, scheletrico, quasi malato, che emana una sensualità strana e perversa, per arrivare alla conclusiva, quasi disarmonica, Silver Mine, attraverso un pugno di perle di rara suggestione. Ne citiamo soltanto qualcuna, come la melliflua, armoniosa Planet Of The Apes, la dolcissima Sinners Like Us, che rispolvera il nostalgico impianto orchestrale di un vecchio mellotron, Without A Stone, con tanto di sitar, The Kiss, elettrica e sexy, Sometimes, un country algido e schematico. Merita un cenno a parte anche la title-track, fragile ed eterea, percorsa da soffici minimalismi ed una voce sognante.

Indian Jewelry-Totaled

Parlando a proposito degli Indian Jewelry poco più di un anno fa in occasione dell’allora ultimo “Free Gold!”, citammo i “My Bloody Valentine di Loveless immersi in un barile di acido”. Era il paragone più calzante per quella splendida tappa del loro percorso, che affogava la consueta slabbrata e drogatissima psichedelia in un oceano di stratificazioni e rarefazioni chitarristiche, in una sorta di personalissima rivisitazione dello shoegazing. Per il nuovo atto “Totaled”, edito anche questa volta da We Are Free, Erika Thrasher e Tex Kerschen hanno virato nella direzione di un post punk cupo e tenebroso, che ha le proprie radici nei Velvet Underground e le principali diramazioni nei rami più torbidi e malati del movimento, dai Public Image di “Metal Box” ai Pere Ubu di “Modern Dance”, con la supervisione nemmeno troppo occulta dei Suicide dell’omonimo debutto. Canzoni, o parvenze delle stesse, affogate in sordide spirali di synth stratificati e riverberati, percorse da voci filtrate e sommerse, da ritmi elettronici o percussioni cupe e monotone, da chitarre quasi mai in primo piano, che si limitano a percorrere le trame già solcate da quelle colate laviche senza volere o potere uscire dalle loro tracce profonde, da un pesante contorno di miasmi sonori d’ogni tipo. Un effetto d’insieme che è comunque molto superiore alla somma dei singoli denominatori e molto più lineare di quanto la loro “pesantezza” non faccia pensare –le canzoni, insomma, ci sono!-  e non mancherà certo di appassionare coloro che, come chi scrive, vedono negli Indian Jewelry e nella loro musica una delle poche risposte possibili ad un concetto moderno di psichedelia. Quasi inutile parlare dei singoli brani, visto che il disco va assorbito dall’inizio alla fine come un lungo, ininterrotto flusso creativo, ma dispiace non citare le iniziali Oceans e Look Alive, cosparsa –quest’ultima- da vapori quasi industriali, una sorta di summa dell’aria che si respirerà nell’intero lavoro, Lapis Lazuli e Simulation, con le chitarre che riescono ad alzare la testa, il quasi synth-pop della più sbarazzina Tono Bungay, l’effetto molto Suicide di Parlous Siege And Chapel, con il synth che traccia veri e propri tappeti ipnotici sporcati dalle chitarre e deturpati da una voce metallica ed impersonale, le valanghe sintetiche della conclusiva Dog Days, che sembrano travolgere ed affogare qualsiasi cosa per un ultimo, disperato atto.

Sleepy Sun-Fever

Gli amanti delle sonorità psichedeliche più tradizionali potranno invece tranquillamente convergere sul nuovo album degli Sleepy Sun, “Fever”, che succede al debutto di “Embrace” per i tipi di ATP Recordings, gli stessi che hanno ristampato il primo disco nel 2009 dopo l’autoproduzione quasi clandestina dell’anno precedente. Qui si respira l’aria di un classic rock che la band si premura di mantenere il più classic possibile, come se ogni estate fosse quella dell’amore ed il vento portasse ancora sogni di pace e libertà. Il disco, semplice e gradevole, poggia sui contrappunti vocali fra la voce femminile di Rachel Williams e quella maschile di Bret Constantino, sull’alternanza fra ruvide atmosfere scandite da riff sabbathiani e delicate oasi in cui, sovente nello stesso brano, il fervore elettrico si placa in momenti di dolcissima intimità (l’iniziale Marina, con belle aperture lisergiche nel finale), in un contesto piuttosto controllato che lascia poco spazio ai momenti di rottura (la mesta preghiera pagana di Acid Love, con un po’ di feedback in sottofondo). Una possibile pietra di paragone potrebbero essere i Black Mountain, anche se i Nostri sono ancora lontani dagli standard dei più navigati colleghi canadesi. Poche, comunque, le eccezioni alla formula anzidetta, fra le quali vale la pena di ricordare il folk bucolico di Rigamaroo, il bozzetto acustico con qualche disturbo elettrico di Ooh Boy, la ritmatissima, funkeggiante Freedom Line, che non si risparmia comunque qualche fuga acida nel finale. Da segnalare anche Open Eyes, uscita su singolo, fra chiaroscuri ed aperture lisergiche e la lunga, conclusiva, Sandstorm Woman, che sembra condensare l’intero album nei suoi dieci minuti.

National-High Violet

Una sorta di (disperato) classicismo è anche quello ormai raggiunto dai National. Dopo un lungo processo di avvicinamento che, dalle atmosfere tipicamente indie di un piuttosto caotico omonimo album di debutto del 2001, li ha portati ai meticolosi arrangiamenti orchestrali ed alle atmosfere notturne del precedente, pluri celebrato “Boxer” del 2007, attraverso le tappe intermedie di “Sad Songs…” (2003) e “Alligator” (2005), il loro sound sembra ormai puntare verso una sorta di crooning moderno che, come d’uopo, ha il proprio baricentro nella voce calda e baritonale del cantante Matt Berninger. Le canzoni di “High Violet”, pubblicato nei mesi scorsi dalla 4AD in cd e doppio vinile, con anche una tiratura limitata color porpora, sembrano intrappolare Frank Sinatra in rigide strutture post punk: la voce di Matt, profonda precisa e sottilmente monocorde, declama i suoi versi su un suono denso e magmatico, scuro e pulsante, tutto basso e batteria con la chitarra relegata a compiti di puro accompagnamento, intonando melodie tragiche e sofferte. All’inizio sembra un unico, ininterrotto flusso che trasporta placidamente i fantasmi di un pugno di canzoni racchiuse in un’intensa ed ossessiva cifra stilistica, poi, dopo qualche ascolto, cominciano ad emergere i singoli episodi. Anche i brani più scarni e confidenziali, come le iniziali Terrible Love e Sorrow, o le successive Little Faith e Lemonworld, rivelano anime diverse che rivendicano, ognuna, la propria identità; Anyone’s Ghost si apre ad una piccola esplosione ritmica, Runaway ad una struttura classicheggiante percorsa da sottili arpeggi chitarristici, Conversation 16 ad un’inedita varietà strumentale e vocale. E ancora Bloodbuzz Ohio, primo singolo tratto dall’album, atmosfera cupa post Joy Division, onde sonore compatte in leggero crescendo, splendida melodia vocale, e le conclusive England, come intuibile ballatona molto english old style, e Vanderlyle Crybaby Geeks, un lungo, romantico e avvolgente congedo. Un disco bello e trasversale, insomma, che potrà mettere d’accordo generazioni di fans diversi: da quelli di Frank Sinatra a quelli di Joy Division e dei Tindersticks migliori. Rimane semplicemente da appurare se è proprio questo che volevano fare i National da grandi o se si tratta semplicemente della nuova tappa di un discorso in costante divenire: il tempo, insomma, dirà se il termine classicità sarà destinato a far rima con staticità.

The Books-The Way Out

E a loro modo classici sono ormai anche i Books, inventori di una formula che ha fatto scuola negli ultimi dieci anni, quella della cosiddetta folktronica, che fonde suoni acustici a samplers elettronici in un guazzabuglio di intemperanze ritmiche, vocali e sonore, melodie appena abbozzate o completamente negate, che ha stravolto, con successo, la forma canzone tradizionale stabilendo un nuovo standard intorno al quale si è costruito un genere cui si sono accodate torme di più o meno validi imitatori. Ora che il senso di novità è stato soppiantato, in molti casi, dalla ripetitività di un suono prigioniero di schemi molto più rigidi di quanto non si potesse immaginare, è spontaneo chiedersi se questa musica non abbia già espresso tutte le sue potenzialità, se esistano insomma ancora frontiere che possano essere proficuamente esplorate. Ed è normale attendersi il segnale più forte da quelli che del movimento sono stati gli indiscussi fautori. I Books sembrano però prendersi tempo, aggirare la domanda regalandoci con il ritorno di “The Way Out” (Temporary Residence), a quasi cinque anni dall’ultimo, e a parere di chi scrive più convincente, “Lost And Safe”, un ulteriore perfetto trattato della loro arte che solo a tratti si discosta dal puro esercizio di stile. Cinque anni in effetti sono tanti, addirittura un’eternità nella civiltà odierna, non solo musicale, del mordi e fuggi: un lasso di tempo tale da far pensare ad un ritorno sotto una nuova veste o ad un’onorevole deposizione delle armi. Invece niente di tutto questo: i Books continuano a fare ciò che sanno fare benissimo e, almeno in questo, offrono una valida garanzia contro gli improvvisatori. Brani come We Bought The Flood, I Didn’t Know That, Free Translator o The Story Of Hip Hop che, nel più classico stile del duo, uniscono il sentimento alla tecnologia, intrecciando gli elementi o gli stili più disparati per arrivare a confezionare un prodotto perfetto, non deluderanno certo i vecchi fans e non mancheranno, nel caso il terreno sia ancora fertile, di conquistarne di nuovi. Per le eventuali risposte bisognerà armarsi di pazienza….

Pontiak-Living

I Pontiak continuano a macinare un grande disco dopo l’altro mostrando, oltretutto, una prolificità tanto più invidiabile nella misura in cui continua a far rima con qualità. Circa un anno fa eravamo a tessere le lodi dell’ottimo “Maker”: da allora un “mini” album più vicino ai quaranta minuti che ai trenta, l’avvincente “Sea Voids”, e, ormai da qualche mese nei negozi, il nuovissimo “Living” per i soliti tipi della Thrill Jockey. Innanzitutto il consiglio di mettere le mani, nonostante qualche difficoltà di distribuzione, sulla splendida edizione limitata a 1.000 copie in vinile arancione, con una veste davvero de-luxe. Poi, a prescindere comunque dal formato, l’invito ad ascoltarlo. La psichedelia moderna passa obbligatoriamente da qui, non perché i Pontiak ne abbiano stravolto i canoni, ma perché oggi è davvero difficile trovare di meglio. Un genere che, nella sua forma più classica, è di per sé immodificabile, mi verrebbe da dire eterno, rivive nel trio dei fratelli Carney gli antichi splendori ed oggi è davvero difficile chiedere di più. Gli ingredienti sono sempre i medesimi: riff sabbathiani, suggestioni desertiche, impennate post-stoner, delicate oasi pinkfloydiane, atmosfere oniriche, suggestioni melodiche, aperture sperimentali che si susseguono, quasi senza soluzione di continuità, in un universo psichedelico che i Nostri sembrano voler esplorare in ogni sua sfaccettatura. Quello che contraddistingue i Pontiak è la qualità davvero superiore della loro magnifica miscela. Inutile fare citazioni perché il disco va assorbito come un unico, ininterrotto, flusso –oserei dire- spirituale. Un elemento di novità? Le chitarre acustiche…