I miei luoghi oscuri
di Marco Tagliabue
20 ottobre 2012
Erano entrati nella storia del rock direttamente al via, solo un paio d’anni prima, con l’epocale debutto di Psychocandy. La lezione dei Ramones, melodie semplici e tonnellate di energia, riveduta e corretta con un reattore nucleare in luogo della vecchia centrale elettrica dei quattro newyorkesi e tutte le lancette costantemente sul rosso. Ma se Psychocandy era stato il White Light/White Heat dei due fratellini Reid, è con il successivo Darklands che la parabola del gruppo scozzese sembra definitivamente allinearsi a quella dei Velvet Underground: dopo il furore arriva il momento dell’introspezione. I ritmi rallentano, le tonnellate di feedback spariscono, le atmosfere si fanno torbide e malsane: Darklands è un viaggio estenuante, oscuro e peccaminoso, nelle profondità dell’io alla ricerca del lato nascosto (I’m going to the darklands/to talk in rhyme with my caotic soul), lontano dai sogni, dalle risate, dalle pulsazioni di un mondo inerte, verso quella linea immaginaria dove Inferno e Paradiso hanno il confine incerto. Dieci ballate che non lasciano scampo, che non vogliono sentir parlare di speranza (Nine millions of rainy days/have swept accross my eyes), che recano già il sapore amaro della disillusione, della riflessione, della presa di coscienza, della sconfitta. Sembrano passati secoli dagli sberleffi adolescenziali di Psychocandy, la maturità forse è arrivata troppo in fretta e, con essa, l’ultimo sussulto creativo. Dopo di che sarà soltanto routine, magari –ancora per un po’- di classe, ma soltanto routine.
(da LFTS n.80)