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SHARON GOLDMAN – KOL ISHA (A Woman’s Voice)

di Paolo Baiotti

12 febbraio 2017

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SHARON GOLDMAN
KOL ISHA (A Woman’s Voice)
sharongoldmanmusic 2016

Cantautrice newyorkese di estrazione ebraica, Sharon ha già pubblicato Shake The Stars (2006), Sleepless Lullaby (Ep 2010) e Silent Lessons (2014) prima di questo Kol Isha, realizzato con l’aiuto di una campagna su Pledge Music. Nativa di Long Island, è cresciuto tra balletti, libri e la musica di Billy Joel. Dopo essersi allontanata dall’ambiente religioso ortodosso, è vissuta a New York lavorando come giornalista e redattrice e si è sposata. Nel 2000 ha scoperto la scena degli “open mike” (microfoni aperti) dove artisti sconosciuti hanno tuttora l’opportunità di esibirsi, tre anni dopo ha divorziato, ha venduto il suo appartamento e si è dedicata alla musica trovando un discreto riscontro negli ambienti indie, dei college e delle radio pubbliche, ricavandosi una nicchia non irrilevante. Kol Isha rappresenta un cambiamento di direzione, basato su una profonda rivisitazione della sua fanciullezza vissuta nell’ortodossia ebraica e sul viaggio di crescita che l’ha portata ad allontanarsi da queste radici senza rinnegarle. Lo stesso titolo si fonda sulla tradizione di alcune comunità ebraiche tradizionali dove non è permesso alle donne di cantare in pubblico in presenza di uomini. Invece Sharon non solo ha deciso di farlo, ma è impegnata in varie associazioni di artisti e compositori, scrive un blog piuttosto conosciuto e cura una rassegna di autori.

In Kol Isha i testi assumono un’importanza primaria, ma Sharon non trascura l’aspetto musicale, basato principalmente sulla sua voce limpida e quieta, affiancata da un accompagnamento moderatamente elettrico fornito dalla chitarra di Stephen Murphy, coproduttore del disco, che spesso intreccia l’acustica o il piano della Goldman, dal basso di Craig Akin e dalla batteria di Dan Hickey, con qualche incursione delle tastiere e del violino di Laura Wolfe e dell’oud (strumento a corde di origine persiana) di Brian Prunka. Gli accenti bluesati di In My Bones, Song Of Songs e della mossa The Sabbath Queen, le influenze di Americana in Lilith e quelle tradizionali di The Bride, dove il matrimonio è visto non come l’inizio di un viaggio ma come l’inizio della fine, oltre alla pianistica ballata Land Of Milk And Honey cantata parzialmente in ebraico, mi sembrano le tracce più interessanti di un lavoro pacato nel quale primeggiano i toni morbidi e riflessivi.