ARCHIE LEE HOOKER AND THE COAST TO COAST BLUES BAND – Chilling
di Paolo Crazy Carnevale
5 giugno 2018
ARCHIE LEE HOOKER AND THE COAST TO COAST BLUES BAND – Chilling (Dixiefrog/IRD 2018)
Il blues… una musica che mi ha sempre affascinato e a più riprese continua a farlo, anche se non è il genere che ascolto in prevalenza. Quanti bluesmen ci sono in giro che non abbiamo mai ascoltato e a cui invece varrebbe la pena di porgere l’orecchio? Molti, sicuramente, anche se va da sé, quelli storici ormai sono passati a miglior vita, intendo quelli delle origini, quelli che cantavano e suonavano per il puro piacere di intrattenere la gente in un juke joint del delta dopo il lavoro nei campi o più avanti nei bassifondi di Chicago dopo un turno in fabbrica. Il blues nero, quello propriamente detto, si è evoluto poi in qualcos’altro, a livello concettuale, mentre a livello musicale lo hanno sicuramente salvato i bianchi, sia per quanto riguarda il farlo, sia il fruirne. La musica dei neri ora è un’altra, ma qualche nero di vecchia data che lo fa ancora come si deve è tutt’ora in circolazione, magari con più seguito più in Europa che in America, ma i risultati non deludono.
È il caso di questo anziano signore il cui nome non può non richiamare alla memoria quello del suo più celebre zio John Lee o quello del cugino Earl: Archie Lee l’arte l’ha appresa direttamente dall’illustre progenitore e si sente, il suo blues è la continuazione, adattata ai giorni nostri, del folk blues di John Lee, elettrificato a dovere grazie ad un combo di pallidi rampolli europei che gli forniscono un’adeguata base, solida quando deve essere solida, discreta quando il modello originale si fa spazio con più prepotenza.
Archie non è certo un giovanotto, ha la sua età e lo si capisce dalla foto di copertina, la voce richiama molto quella di Hooker senior, ha la stessa tonalità bassa e profonda, la stessa abilità nel “mormorare” o “biascicare” il blues, e fin dal titolo questo disco realizzato in Belgio è un omaggio a lui, ma senza tralasciare altre influenze, più sudiste (ascoltate Tennessee Blues per rendervi conto di quanto il brano sia vicino allo stile musicale di tale Warren Haynes), dovute magari alle fonti d’ispirazione dei suoi accompagnatori: il chitarrista brasiliano Fred Barreto, il bassista francese Nicolas Fageot, il batterista lussemburghese Yves Ditsch e il tastierista Matt Santos, che si occupa anche dell’armonica. La formazione dopo una serie di successi mietuti esibendosi nei maggiori festival europei, ha debuttato nel 2016 e replica ora con questo disco decisamente accattivante, una delle cose migliori ascoltate ultimamente in ambito blues, omaggio dichiarato al John Lee che lo scorso anno avrebbe compiuto cent’anni.
Se da un lato ci sono brani nella norma come 90 Days o Love Ain’t No Playing Thing, dall’altro svettano perle come la menzionata Tennesse Blues in cui la chitarra e l’organo elargiscono prodezze spettacolari. E che dire della robusta title track? Nel disco i brani veri e propri si alternano con quattro tracce che fungono da narrazione, ma sempre senza perdere il contatto col modello originale, anzi, si potrebbe dire che si tratta di vere e proprie composizioni, come nel caso della rurale The Roots Of Our Family, in cui Archie Lee sfodera lo stile canoro di famiglia e con una base di armonica incanta l’ascoltatore, o di Don’t Tell Mama e Don’t Forget Where You Are From in cui racconta la storia della famiglia per metà discendente dei nativi americani e per metà dagli schiavi portati dal continente nero dai negrieri. Altro capolavoro è poi la versione di Moanin’ the Blues in bilico tra psichedelia e blues acustico, magnificamente accompagnata dalla Coast To Coast Blues Band. Ottime sono poi anche Blues Shoes e I’ve Got Reasons.
Gli umori sudisti si rifanno vivi in Your Eyes mentre da applausi sono sicuramente l’acustica Jockey Blues e la Bright Light Big City lavorata splendidamente a suon di slide.