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SHEMEKIA COPELAND – The Uncivil War

di Paolo Crazy Carnevale

29 novembre 2020

Copertina

Shemekia Copeland – Uncivil War (Alligator/IRD 2020)

L’attesa per questo nuovo disco di Shemekia Copeland era molta, complice il meritatissimo premio conseguito dal disco precedente come album dell’anno ai Blues music Awards.

E l’attesa non viene certo tradita dalla grintosa artista che senza cambiare troppo la ricetta (squadra vincente non si cambia) torna, sempre sotto l’ala della Alligator, con un disco che non delude e conferma la sua statura d’interprete del blues a tutto tondo, nelle sue varie forme, dal rock blues granitico al gospel alla soul ballad di stampo sudista, facendo al tempo stesso un disco che scorre lungo il filo delle lotte per i diritti civili, un tema quanto mai tornato drammaticamente di attualità, soprattutto in America, negli ultimi mesi dell’amministrazione Trump, quasi tutte le lotte e le marce degli anni sessanta fossero state cancellate con un violento colpo di spugna.

Con Will Kimbrough di nuovo seduto in regia e con una serie di collaboratori da urlo, la Copeland mira sicuramente a bissare il successo di America’s Child. Già dalla composizione inziale, una ruggente Clotilda’s On Fire che vede alla chitarra un cameo di Jason Isbell, si percepisce la stoffa del disco che si accende ancor più con il successivo Walk Until I Ride in cui la Copeland ricorre alla lap steel sempre ineccepibile di Jerry Douglas, mentre il produttore si occupa dei cori.

Ritroviamo Douglas, ma stavolta col dobro, nel terzo brano, più rilassato come struttura, più intimo, si tratta della title track in cui la voce stavolta più carezzevole di Shemekia è aiutata dai cori degli Orphan Brigade, e oltre a Douglas c’è anche il suo compare Sam Bush con uno struggente intervento di mandolino.

Money Makes You Ugly torna su temi importanti ed è attraversata dai brividi elettrici della chitarra del giovane Christone Kingfish, l’organo di Phil Madeira è invece il protagonista di Dirty Saint un brano dall’andatura allegra in stile New Orleans, la solista chitarra è qui affidata al producer.

La cover della rolligstoniana Under My Thumb è una sorpresa, ancor più lenta rispetto a quella proposta dal vivo dai Blind Faith nel 1969, particolarmente avvolgente ed al tempo stesso mantenendo del tutto la carica emotiva, nonostante un arrangiamento minimale basato sulla chitarra di Kimbrough, sulle percussioni e sul basso di Lex Price (presente in tutto il disco).

L’energia torna con Apple Pie And A .45, dal testo eloquente e con una limpida interpretazione vocale della titolare del disco, all’insegna della miglior scuola del rock-blues. Un testo importante anche per Give God The Blues, sorretta da una batteria in levare che fa sembrare il brano un hard-reggae-blues, altra composizione che non delude. L’inconfondibile chitarra di Duane Eddy è poi il marchio di fabbrica dell’ottima She Don’t Wear Pink dall’andatura galoppante, altra perla inanellata nel filo allestito dalla Copeland e dal suo producer. No Heart At All è vibrante e col testo scandito quasi in forma recitativa, una sorta di rap-rock lento. Più rock che rap.

Un intenso tema gospel è il filo conduttore di in The Dark, composizione lenta e struggente che vede ospite la chitarra del grande Steve Cropper, il Colonnello come lo chiamavano nel film i Blues Brothers, e il botta e risposta tra la sua sei corde e la voce di Shemekia è ineccepibile.

Country-soul è l’arrangiamento vincente della conclusiva Love Song, una canzone di speranza per chiudere in positivo un disco doloroso ed al tempo stesso un omaggio di Shemekia al padre Johnny, che del brano è l’autore.

Le premesse per bissare il successo di America’s Child ci sono davvero tutte.

SHEMEKIA COPELAND – America’s Child

di Paolo Crazy Carnevale

2 gennaio 2019

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SHEMEKIA COPELAND – America’s Child (Alligator 2018)

Grande connubio quello che ha portato alla pubblicazione di questo signor disco; tanto di cappello all’Alligator, un’etichetta sempre al top nell’ambito del blues, sia elettrico che più legato alla tradizione. L’abbinata tra la voce e la grinta della Copeland con la chitarra e la zampata caratteristica da producer scafato di Will Kimbrough (peraltro già collaudata nel disco precedente della cantante) è davvero al fulmicotone.

La trentanovenne vocalist newyorchese ed il chitarrista dell’Alabama sembrano fatti apposta per fare coppia, almeno su disco. Rispetto ad altri dischi di Shemekia (che, ricordiamo, è figlia del chitarrista Johnny Copeland), Kimbrough dà al disco un sound più virato verso il sound americana, senza però snaturare l’humus da cui la Copeland proviene, e anche laddove s’inseriscono illustri colleghi, come ospiti, come autori o in entrambe le vesti, il blues elettrico e lo stile vocale di Shemekia restano le costanti dominanti di questo America’s Child, il cui titolo dice già tutto su quanto ci dobbiamo attendere.

Kimbrough non ci mette solo la sua lancinante slide, ma tesse all’organo trame spesse e robuste che costituiscono l’essenza del disco, e per aggiungervi un tocco notevole in più firma buona parte del materiale nuovo.

Un disco robusto, un disco bello che si apre già alla grande con Ain’t Got Time For Hate, quasi un titolo programmatico, la solista di Kimbrough duetta con la pedal steel dell’immenso Al Perkins e a fare i cori ci sono Mary Gauthier, Emmylou Harris, John Prine e Gretchen Peters. E quindi, giù il cappello da subito. Ottima anche Americans, firmata dalla Gauthier che ci mette anche la voce nei cori, qui l’atmosfera è meno ruvida e alla pedal steel c’è il Paul Franklin di knopfleriana memoria.

Bene anche Would You Take My Blood, meglio ancora la scoppiettante Great Rain firmata dall’arzillo John Prine che, alla faccia dell’età e delle magagne, si concede un bel duetto con Sjemekia: le chitarre sono di nuovo di Perkins e Kimbrough, che passa poi alla National nella successiva Smoked Ham And Peaches, di nuovo della Gauthier, brano dalle atmosfere più intime che vede ospite Rihannon Giddens al banjo africano. Gran bella canzone.

Quasi rockabilly l’idea di base di Wrong Idea, altra composizione ben costruita e ancor meglio resa, con un indovinato inserimento del violino di Kenny Sears. Con Promised Myself scatta il doveroso omaggio della Copeland al padre Johnny, che ne è l’autore: il rock lascia lo spazio ad una soul ballad, intensa, lenta, avvolgente, bella, con tanto di cameo di Steve Cropper alla chitarra.

Di nuovo rock è invece l’atmosfera di In The Blood Of The Blues, mentre Such A Pretty Flame è un blues notturno e urbano che non starebbe male nei titoli di testa di un Bond-movie, con la pedal steel di Perkins che ulula nell’oscurità duettando con la solista del producer.

Buona anche One I Love, con l’armonica di J.D. Wilkes, molto ben cantata, come del resto anche la riproposta della kinksiana I’m Not Like Everybody Else che in questa lettura ci ricorda quanto americani fossero Ray Davies e soci già nel 1965 quando il brano debuttò su Kinkdom.

La chiusura è intima, solo la Copeland quasi in chiave a cappella, non fosse per l’intro di Kimbrough, alle prese con la ninna nanna Go To Sleep Little Baby.