ANDRE CYMONE – 1969

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ANDRE CYMONE – 1969 (Leopard 2017/ IRD)

L’idea di base di questo disco è abbastanza chiara, fin dall’inizio: i primi secondi del disco i fanno ascoltare la manopola di un sintonizzatore che gira alla ricerca della musica giusta. E la musica giusta per Andre Cymone, classe 1958, è quella che undicenne ascoltava alla radio, quella di quell’anno immenso che fu il 1969, non a caso titolo del disco: musica ricca di contenuti, di idee e di messaggi politici.

Attenzione però: 1969 non suona assolutamente come un disco datato di classic rock, tutt’altro, è un disco molto moderno, ricco di idee e di influenze, magari ripescate da quei giorni felici così lontani, ma proposte con uno spirito attualissimo.

Ma chi è Andre Cymone vi chiederete a questo punto? Nato come Andre Simon Anderson, l’artista protagonista di questo disco è un produttore e polistrumentista legato fin dalla gioventù a Prince nel cui gruppo pre-Revolution ha ricoperto il ruolo di bassista. Ma se la carriera di Cymone è costellata di lavori e produzioni all’insegna di una black music dalle tinte fortemente orientate verso soul e funk, questo 1969 può essere considerato un disco rock a tutto tondo, un rock nero, d’accordo, che ricorda alla lontana le sonorità dell’Arthur Lee post sbornia psichedelica.

L’idea di base di cui sopra è sviluppata nel disco in maniera molto decisa e pur non ricordando dichiaratamente nessun musicista di quell’epoca, qua e là in 1969 fanno capolino tutte le influenze possibili ed immaginabili, abilmente mescolate da Cymone che oltre ad occuparsi della voce, della chitarra solista e del basso è al timone anche come produttore, supportato da un esiguo manipolo di accompagnatori, per lo più chitarristi, che lo assecondano in questo suo concept.

Spunti hendrixiani, riff alla Stones (sia quelli dichiaratamente rock’n’roll, sia quelli di fine settanta quando qua e là strizzavano l’occhio alla disco), brani intimi guidati dalla chitarra acustica, suonata però con effetti moderni e soluzioni sonore che non possono non richiamare il vecchio compagno d’armi di Cymone, a cui il disco è dedicato.

Se le canzoni iniziali sono accattivanti e piacevoli, è con la terza traccia, California Way, d’ispirazione dichiaratamente hendrixiana come recitano le note di copertina, è un tripudio chitarristico che prende dalle prime note e piace un sacco.
Buona anche Already There, ma meglio ancora è Breathin’ Out Breathin’ In in cui – dopo un’introduzione vagamente psycho – echeggiano quelle atmosfere soul disco di cui sopra. It’s Rock’n’Roll, Man aperta e chiusa da applausi posticci è invece tutta un riff che gioca tra blues e rock. Point And Click si apre con una chitarra distorta da paura, poi l’atmosfera si fa più rarefatta e il brano si tinge di pop. Piace di più la traccia seguente, l’acustica Black Lives Matter tutta ad appannaggio di voce e chitarra che vestono alla perfezione una composizione vincente, uno dei punti forti del disco. Bella la successiva It Ain’t Much, mentre Black Man In America ( a cui prendono parte anche Mic Murphy ed il batterista della band di Prince in cui Cymone militava) e in particolare la title track (acustica) – che dovrebbero essere tra i brani di punta – non mi convincono del tutto e alla lunga risultano ripetitive. Il finale è affidato alla devastante Is That You, in cui tornano prepotentemente gli echi hendrixiani già apprezzati in California Way.

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