MAGGIE BJORKLUND – Shaken

bjorklund

 

MAGGIE BJORKLUND

Shaken

Bloodshot Records

 

E’ da tempo in atto un processo di completa globalizzazione musicale, se questa musicista danese di Copenhagen propone un album che potrebbe essere nato in California o a Seattle o in qualsiasi sobborgo britannico. Secondo album per una compositrice, cantante e musicista che suona quale strumento principe, ma in maniera del tutto diversa da quella che siamo soliti ascoltare, la pedal steel guitar. In più, la Biorklund ha saputo attorniarsi di artisti importanti sulla nuova scena europea e non, come Mark Lanegan, John Burns e John Convertino dei Calexico, John Auer dei Posies, tanto per citare qualche nome.

Nel nuovo album, accanto a questa carismatica autrice, troviamo, fra gli altri, Jim Barr (Portishead), John Parish, già collaboratore di P.J. Harvey e Sparklehorse e Kurt Wagner dei Lambchop. La personalità di Maggie Bjorklund è comunque del tutto autosufficiente. Lo dimostrano in un album che ha l’unico limite nella durata di soli 38 minuti, tutte e undici le tracce, fra strumentali e brani cantati, nei quali si aggiunge l’eloquente violoncello di Barb Hunter. La pedal steel non si muove certo in territori country, ma disegna guizzi inquieti e tormentati, suoni dilatati e musiche concentriche, fra voci che provengono dall’al di qua, chitarre affilate, suoni storti e pur melodici che ti riportano per itinerari sotterranei ai Velvet Underground, alla psichedelia, con allargamenti alla musica americana “tout court”.

Maggie ha una voce quasi distaccata, filiforme quanto densa, qualche volta spezzata e trasparente, vestale di un suono sofferto che appartiene forse a una bohème scandinava, mostrata agli occhi dell’occidente. Un album color indaco, a vicolo chiuso, nel quale avviene una sorta di cristallizzazione della sofferenza, per una musica che proviene dal dolore condiviso e da una solitudine forse improvvisa. Qualche pensiero non può non correre a Nico e a Marianne Faithfull. Non avremo scoperto l’uso della ruota nel constatare, ancora una volta, che la più sublime delle poesie proviene forse dall’angoscia e dalla rarefazione dei rapporti interpersonali. L’anomalia nell’uso della pedal steel investe i brani con un’eleganza e una profondità davvero rare. Restano impressi, al primo contatto, brani come l’iniziale Dark Side Of The Heart, l’ossessiva e martellante Bottom Of The Well, a mostrare cosa contiene il fondo del pozzo, gli accordi acustici “straniati” di The Road Of Samarkand, lo splendido dialogo canoro insieme a Kurt Wagner di Fro Fro Heart, la mestizia di  The Unlucky. I suoni qualche volta si distendono e le melodie allargano i propri confini alla ricerca di una striscia di luce. E’ musica che si presta a commentare immagini reali come in Name In The Sand, o nell’affanno di Missing At Sea. Grandioso il pezzo intitolato Amador, per un motivo tracciato dalla steel che è come una tenaglia, uno strumentale che è un pezzo guida e mostra tutto l’estro della ragazza danese.

Una prova eccellente, oltre ogni possibile frontiera, a mostrare un temperamento e un’attitudine artistica fuori dal comune. Una musicista che compone come se scolpisse.

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