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EMMA TRICCA: La reliquia di un carillon

di PJ

25 dicembre 2014

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Di lei si è raccontato quasi tutto. Le origini, la vocazione artistica, la voglia di andare altrove. Dall’Abruzzo, a Trastevere fino a Londra, passando per New York. La fatica quotidiana impastata di caparbietà; la non facile accettazione della propria identità; lo sguardo sempre rivolto alle radici, quelle di casa e quelle del folk. Dopo il successo di Minor White (album del 2009 pluridecorato dalla stampa d’oltremanica e applaudito infine anche da noi) quasi 5 anni di silenzio urlante hanno portato a Relic (per il quale le pluridecorazioni si sono fatte, se possibile, ancora più esplicite). Un periodo pazzesco che l’ha portata a suonare, come artista d’apertura del tour di Jools Holland, su palchi come quello della Royal Albert Hall di Londra o dell’Apollo di Manchester, di fronte a 8mila persone. La rivista Mojo, parlando di lei, tira perfino in ballo una nuova autenticità del folk del Greenwich Village. Altri ancora collocano Tricca tra le regine della canzone d’autore al femminile, affiancandola a nomi che mettono i brividi solo a leggerli: Joni Mitchell, Sandy Denny, Judy Collins, tendendo un arco temporale che proietta un’involontaria luce sul concetto stesso di modernità. L’abbiamo incontrata a Londra, nella sua casa di Stoke Newington, nell’ambiente che l’ha accolta e cresciuta, ora popolato da artisti di ogni genere (qui, ad esempio, si è da poco trasferito Thurstone Moore). Un quartiere animato da gente bizzarra e novelli Lord Byron. Nella dimensione di casa, dove è riconosciuta e rispettata come persona prima ancora che per ciò che produce, Emma si è lasciata andare con noi al flusso di coscienza che vi offriamo nelle righe che seguono. Corrente di riflessioni in cui l’estensore si fa per forza invisibile, lasciando spazio al mistero della creazione artistica. L’invito è di ascoltare Relic senza troppi schemi mentali e farsi condurre per mano dal medesimo flusso, incarnato in canzoni che, realmente, possiedono una particolare magia: sanno parlare a ciascuno della propria fragilità.

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“Dopo Minor White ho continuato a scrivere e mi sono ritrovata con una collezione di nuove canzoni che volevo registrare con le stesse persone; sentivo che con loro potevo affidarmi e superare le mie paure innate di uno studio. Ciò che Carwyn Ellis (leader dei Colorama e produttore di Minor White, nda) aveva tirato fuori da quel disco era prezioso; mi aveva dato la possibilità di essere me stessa e nel contempo conoscere qualcosa che ancora non avevo esplorato”. Naturale, quindi, e anche confortante, ci racconta Emma, registrare le canzoni di Relic in questa dimensione di protezione e ascolto reciproco. Anche a rischio di ripetersi. “Partivo dalla forte consapevolezza che Carwyn stesso non ama ripetersi e, del resto, mi spronava continuamente a guardare un altro lato di me, che emergeva anche dai nuovi brani; infatti, la prima sessione ha fatto affiorare un’identità generale lievemente più pop. E’ successo però che, nella rosa delle canzoni, ce n’era una che ancora non avevo finito, Golden Chimes. Quando Carwyn ne ha sentito l’accenno, in una sessione successiva, mi ha costretta a concluderla: avevamo ultimato e registrato la struttura musicale e lui mi ha inchiodata alla sedia per completare le parole”.

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Teniamo in mente questo dettaglio perché, subito dopo, nel luglio del 2011, le vicissitudini dei London Riots, l’incendio dei magazzini dell’etichetta nei roghi di Croydon, tengono tutto fermo per qualche mese. “Quando Andy Votel e Jane Weaver, manager della mia etichetta Finders Keepers e miei veri fan, riprendono in mano quelle registrazioni, rimangono incantati proprio da Golden Chimes e mi chiedono di lavorare nuovamente ai brani con l’idea di sviluppare meglio quell’identità, più intima e più folk, se vogliamo”. Con questa sintonia quasi cosmica tra Ellis, Emma e l’etichetta, il brano germoglia nuovamente e in maniera naturale come contenitore e, aprendo e chiudendo idealmente il disco, diventa il palmo della mano su cui vengono accudite di nuovo le altre canzoni. Remixando tutto l’album con questa sensibilità, il disco ha così mosso i suoi passi concreti, sia in senso pragmatico, riferito alla sua pubblicazione, sia spostandosi avanti di una decade rispetto a Minor White, album che poteva essere paragonato alle registrazioni fatte negli anni ’60, come ci conferma la stessa Tricca. “Ritornando in studio, Andy Votel mi portò proprio l’esempio di due dischi che io amo profondamente: Illuminations di Buffy Sainte Marie (del 1969, nda), più fisico e perfino elettronico e Parallelograms di Linda Perhacs (1970), psichedelico ed etereo, spronandomi a lavorare alla voce come nei dischi di Leonard Cohen, in primo piano e senza effetti”.

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Il nuovo disco, le sue vicissitudini così strettamente legate alla vita dell’artista (nel frattempo, Emma stava vivendo una lacerante separazione affettiva), contiene tutte queste fragilità che sembrano farsi carico anche del peso emotivo di Minor White. Fragilità che finiscono per simbolizzare la vera forza di questi brani, intrisi di quella solida fierezza sottolineata nelle recensioni entusiaste pubblicate ovunque. L’innata timidezza di Emma, il giudizio rigoroso su se stessa, le impediscono quasi di ascoltare adesso le canzoni e perfino quando vengono trasmesse dalla radio, lei prova a mantenere un certo distacco da esse (cosa che succede proprio mentre stiamo chiacchierando). “Sento di padroneggiarle così come sono state registrate, le avverto mie e mi sento in sintonia con le persone che mi accompagnano in tour (solitamente, il fido chitarrista Andrea Garbo e due coriste, nda). Mi riconosco in quello che sto suonando, ma mi accorgo anche che, nelle nuove canzoni che scrivo, il mio linguaggio sta cambiando: nuovi riferimenti mi stanno spingendo avanti. Mi sento più psichedelica (ride) e vorrei lasciarmi condurre da questa immediatezza. Cerco di fare spazio a tutto quello che assorbo e che mi ha portato fin qui, ma di non razionalizzarlo, di non orientarlo. Quando una canzone mi arriva, devo solo essere pronta a prenderla per mano e vedere dove mi porta; magari capita mentre sono a letto o mentre sbrigo le faccende di casa”.

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Nel gioco dei riferimenti, nel leggere quello che le persone vedono, Emma comprende quanto le canzoni di Relic vadano a toccare corde personali e intime di ognuno: “Mi ha colpito in modo particolare, ad esempio, leggere che qualcuno abbia collocato questi brani tra Nico e Bjork, due musiciste che funzionano in modo completamente diverso. Tu mi hai appena citato Sandy Denny, che è una dei miei cardini. Ecco, il fatto che si colgano tutte queste eco, mi fa capire quanto io sia una spugna. Scherzando, potrei aggiungere di sentirmi l’anello di congiunzione tra Gigliola Cinquetti e Patty Pravo”. Il collegamento con la canzone italiana non è però solo giocoso e casuale: partita dal Folkstudio di Cesaroni, Tricca ha assorbito la cultura nazionale per il fingerpicking americano (ai tempi De Gregori ne era il portabandiera) facendone il perno della ricerca di un proprio linguaggio artistico. “Il fingerpicking è come se mi avesse trovata, in qualche modo. Passavo giorni interi a provare quei due o tre pattern, finché non ho tirato fuori il mio suono e, inevitabilmente, la mia forma canzone, molto quadrata, molto rispettosa dei canoni. Se senti Dylan, non che io mi paragoni a lui ovviamente, ci sono delle strutture che si ripetono e nell’universo parallelo in cui nascono i miei brani, sento di appartenere a quella sensibilità nello scrivere, così come mi sono rimaste impresse nella memoria alcuni ragazzini che, nella mia infanzia, suonavano la fisarmonica in maniera quasi eccezionale”.

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Gli anni in cui Emma è cresciuta, le aspettative tradite nei confronti di una famiglia che la voleva studente diligente e professionista affermata, i sensi di colpa verso questo tradimento, l’ascolto della voce che la conduce a seguire la propria vocazione, sono le coordinate profonde dell’arte di Emma, l’impasto di cui le canzoni si nutrono per poi tratteggiare immagini poetiche fatte di incontri casuali, solitudine, senso di appartenenza. “Il mio prozio, alla fine dell’800, soffrì molto per questa dicotomia: amava dipingere e così manifestò il desiderio di frequentare l’Accademia delle Belle Arti, ma fu osteggiato da suo padre che voleva a tutti i costi che si occupasse delle cose di famiglia. Finché un giorno non dipinse una figura accovacciata, illuminata a scacchi dalla luce che filtrava dalla finestra; solo quando il mio bisnonno vide questa cosa, allora lo lasciò andare. Io mi sento un po’ simile: dopo tutte le recensioni uscite per i miei due dischi, sono maggiormente consapevole delle mie doti, ma credo molto nell’intuito doloroso iniziale che ti porta su una strada e che su questa strada ti porta poi a incontrare tutte le persone che ti aiutano a realizzare il tuo percorso; nel mio caso Giancarlo Cesaroni, Odetta, John Renbourn, passando per i giornalisti del club folk di NME, fino a Andy Votel e Jane Weaver e tutti gli altri. Solo Albert Grossman non mi ha ancora trovata (ride)”.

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Chiudiamo il resoconto di questo incontro a mezza voce, con qualche semplice suggestione dei brani di Relic, disco che sprigiona la sua bellezza nei chiaroscuri e nei respiri, anche quelli fissati sul pentagramma. Golden Chimes possiede davvero quella magia capace di inchiodarti a un ascolto empatico, relegando sullo sfondo le tue occupazioni per fare spazio alla potenza trasformatrice di un arpeggio quasi impalpabile e di suoni appena evocati nell’ambiente, guidata da una voce che pare essere quella del tuo spirito. Nella sua dissolvenza, la canzone lascia il posto alla dolcezza antica di Sunday Reverie, fiammella tremolante che si schiude tra folk e carillon. Coffe Time incanta per gli arrangiamenti soffusi e il senso di mistica preghiera. Il primo vero stupore giunge con la straordinaria November at My Door, esplosione floreale in forma di musica che sboccia di fronte ai nostri occhi e ci conduce lontano, in un senso di comune unione con gli artisti folk che l’hanno preceduta in questo nobile compito. La voce, una bambola di porcellana, come ha scritto il NME, si fa più colorata nella struggente All The Pretty Flowers, innervata da frustate di morbida psichedelia, aprendo il cuore alla poetica The Painter, ritratto di rara bellezza ammorbidito dal wurlitzer ispiratissimo di Carwyn Ellis. Distant Screen è quasi una ninnananna in forma di istantanee, incorniciate dentro a sonorità dolcissime e struggenti e impreziosite dalla bellissima tromba in lontananza di Sean Reed. Take Me Away adagia il suo arpeggio onirico sulle onde una slide; A Drunken Conclusions spetta il compito di riconsegnarci nuovamente a Golden Chimes, perché la fine non è che un nuovo inizio.

Le foto di questi servizio sono di Chiara Meattelli, che ringraziamo per la cortese collaborazione

da LFTS n.119

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/10

di Marco Tagliabue

24 dicembre 2010

Sacri CuoriPer il suo progetto Sacri Cuori, il chitarrista Antonio Gramentieri ha riunito un cast da urlo: oltre alla band vera e propria che comprende, insieme a lui, John Convertino (batteria), Howe Gelb (piano, chitarra e molto occasionalmente voce), Nick Luca (piano e organo), Thoger Lund (casio) e Massimo Sbaragli (contrabbasso), uno stuolo di collaboratori del calibro di Marc Ribot e Bill Elm alla chitarra, James Chance (proprio lui!) a sax e piano, John Parish alla voce, Christian Ravaglioli all’oboe, Diego Sapignoli alle percussioni, e ci fermiamo qui. Un progetto tutto italiano insomma, che si avvale anche dell’opera di qualificati tecnici stranieri, nato sulle vie polverose del Festival “Strade Blu”, del quale Gramentieri è da tempo organizzatore. Calexico, Giant Sand e Friend Of Dean Martinez, coinvolti a vario titoli attraverso alcuni dei loro membri, rappresentano  un’indicazione più che sufficiente per inquadrare le coordinate di questo ottimo lavoro. Desert-rock quasi completamente strumentale, naturalmente, e del migliore in circolazione da tempo a questa parte. Nate come colonna sonora per il film “The Gilgamesh Tale” di Heriz Bhodi Anam, le registrazioni presenti in questo “Douglas & Dawn” (499 copie numerate in vinile bianco, oltre al coupon per il download in formato MP3, per l’italianissima Interbang Records) si adattano perfettamente a quella lunga sequenza di immagini che la potenza cinematica del loro suono non faticherà ad evocare nella mente di ogni ascoltatore. Il sole accecante genera visioni che dipingono un sound il quale, partendo da una tradizionale ricetta country/blues, si colora di elementi strani, inaspettati, piccole intemperanze che enfatizzano una componente allucinogena più o meno evidente, ma mai del tutto nascosta, che altera le percezioni sensoriali e fa perdere il senso del tempo e dello spazio. Ecco allora, fra i gerani sul balcone, spuntare improvvisamente il peyote…mentre l’orizzonte assume tinte e contorni completamente diversi…

Hugo Race…è sempre Interbang Records, una label da tenere decisamente d’occhio, a curare l’edizione a 33 giri (1000 copie in vinile rosso porpora, su etichetta Gusstaff la versione CD) dell’ultimo, splendido album di Hugo Race “Fatalists”, la terza pubblicazione che lo riguarda in questo fervido 2010, dopo “BKO” a nome del collettivo Dirtmusic, un progetto condiviso con Chris Brokaw e Chris Eckman, ed il lavoro solista titolato ”Between Hemispheres”, improntato a soluzioni strumentali più aeree e sperimentali. Dal giorno in cui Hugo abbandonò la nativa Australia al seguito dei Bad Seeds di “From Here To Eternity” sembra passato davvero un secolo: una carriera da esiliato volontario, un’anima inquieta in pellegrinaggio continuo che lo hanno portato ad attraversare epoche e continenti, stili e movimenti, senza posare il cappello da nessuna parte, senza ferire mai fino in fondo nonostante una produzione sconfinata che vanta più d’una punta di diamante. “Fatalists” riporta Hugo alla sorgente del folk e del blues con un progetto acustico condiviso con la chitarra di Antonio Gramentieri e le percussioni di Diego Sapignoli dei Sacri Cuori, con il violino di Vicky Brown ed il contrabbasso di Eric Van Loo. Otto canzoni scarne, ombrose, per certi versi disperate, che mettono completamente a nudo lo spirito errante di Hugo nel solco di quella tradizione che da Leonard Cohen porta a Mark Lanegan o all’Howe Gelb solista. La sua voce è calda e profonda come non mai, le atmosfere sono crude ed essenziali: melodie che non concedono nulla, che non si servono di facili stratagemmi ma restituiscono, ascolto dopo ascolto, la passione e la disarmante sincerità di chi le ha messe in musica. Dall’iniziale Call Her Name alla conclusiva Nightvision, attraverso la ripresa di quella In The Pines (altrimenti nota come Where Did You Sleep Last Night) che fu anche dei Nirvana unplugged, il ritratto dolente e spietato di un artista vero, outsider per vocazione.

Giant SandLo spirito di Howe Gelb e dei suoi Giant Sand incombe in maniera nemmeno troppo velata sia sui Sacri Cuori che su Hugo Race, come del resto su buona parte di quel rock ispirato ad un deserto che è soprattutto luogo dell’anima. Insieme alla nutrita serie di ristampe volte a festeggiare il venticinquennale del debutto discografico della band, il contratto con la Fire Recordings è inaugurato anche dal nuovo “Blurry Blue Mountain” (CD e LP in edizione limitata a 500 copie in vinile blu e 500 copie picture disc), che segue a distanza di due anni il precedente “Provisions”. Come il legno sul quale è forgiata la copertina, il suono dei Giant Sand (nella stessa formazione dell’ultimo album, con Gelb affiancato dai suoi nuovi compagni di strada di origine danese) tende ormai ad una classicità che anche una buona pialla riuscirebbe difficilmente a scalfire. Sembra proprio che il confine fra i lavori solisti di Howe Gelb e quelli a nome Giant Sand sia sempre più labile se non addirittura inesistente, come se l’identificazione del grande “vecchio” con la sua creatura abbia raggiunto ormai la perfetta sublimazione. Un suono sempre più roots, sempre più americano, che da una solida matrice country rock sempre meno disposta a sporcarsi di elettricità, ingloba qualche elemento jazz, un pizzico di blues, una manciata di swing, un po’ di musica di frontiera. Un disco malinconico e fuggente in cui la voce ed il ruolo di Gelb assumono sempre più quei connotati da “crooner” che stanno caratterizzando da anni la maturità artistica dell’Uomo. Musica per ore notturne non ancora rischiarate dal mattino, per vecchi locali fumosi in prossimità dell’orario di chiusura quando, dimessi gli abiti di scena, camerieri e ballerine tornano uomini e donne normali, semplici, forse un poco delusi dalla quella vita alla quale, ormai, non hanno più nulla da chiedere ma, assolutamente, senza alcun rimpianto.          

Emma TriccaUna delle soprese più piacevoli di questa fine 2010 è stato “Minor White”, il nuovo album di Emma Tricca, finalmente distribuito anche in Italia dopo il recente debutto sul mercato inglese. Romana di nascita, ma cittadina del mondo per scelta e vocazione, Emma si è stabilita a Londra dopo avere rimbalzato fra gli oceani, da Oxford al Greenwich Village. La sua è una musica eterna, un folk delicatissimo e suadente pizzicato sulle sei corde in perfetto fingerpicking, sostenuto da una voce parimenti carezzevole che affida alla musica sogni, speranze, visioni. Ciò che eleva queste canzoni al di sopra delle vagonate di lavori sulla stessa lunghezza d’onda è, innanzitutto, la loro qualità, mai meno che buona, e poi la voce di Emma, in grado di reggere paragoni davvero ingombranti. Se amate le melodie autunnali e non riuscite a fare a meno di Nick Drake nemmeno in piena estate, troverete in “Minor White” e nei suoi dieci confetti acustici una ragione in più per sentirvi ancora innamorati. Anche se, per esperienza, sapete già che ogni amore è destinato a finire male…