Il Paradiso ritrovato

 

Quale processo ha trasfigurato i Talk Talk milionari di It’s My Life e Such A Shame nei Talk Talk visionari di Spirit Of Eden? La scoperta di Dio, verrebbe da dire, tanta è la spiritualità che ammanta un disco che parla all’Anima come pochi altri. Un disco che gronda fede, passione, dolore e sangue, soprattutto sangue, da ogni solco. O forse, più semplicemente, è il miracolo che si rinnova ogni volta che una crisalide diventa farfalla. Oppure, perché in fondo è di una favola che stiamo parlando, ogni volta che un rospo si trasforma in un principe azzurro. Quel che è certo, in ogni caso, è che i Talk Talk sono stati i protagonisti della più incredibile e stupefacente metamorfosi che la storia della musica pop ricordi. Un paio di successi planetari destinati alla colonna sonora dei primi, ultra patinati anni ottanta, nel segno di un sinth pop danzereccio totalmente asservito alle leggi di mercato. Quelle stesse leggi che verranno letteralmente fatte a pezzi, senza remora ne’ pietà alcuna, nei due dischi della conversione, Spirit Of Eden (EMI, 1988) e Laughing Stock (Polydor, 1991), in barba ad un’industria discografica già sicura di aver trovato i nuovi Duran Duran. A dirla tutta, però, qualche avvisaglia c’era stata. Ai più attenti non era sfuggito che The Colour Of Spring (EMI, 1986), quello che doveva essere il disco della consacrazione dopo i fuochi fatui di It’s My Life (EMI, 1984), rappresentava un tentativo di lasciarsi alle spalle una stagione musicale, quella dei lustrini e delle paillettes, ormai logora e consunta. Un tentativo magari non completamente riuscito, o piuttosto non portato avanti in maniera uniforme, quasi il frutto di un conflitto interno senza ancora vincitori ne’ vinti, ma dove le armi riescono ad affondare vincendo la resistenza (Happiness Is Easy, I Don’t Believe In You, April 5th, Chameleon Day), lo stacco con il passato appare incolmabile e definitivo. Nonostante tutta la buona volontà di Mark Hollis e soci, il disco arriva al numero otto delle classifiche inglesi e fa sfracelli un po’ dovunque, spingendo la EMI a dare carta bianca e budget illimitato ai Talk Talk per dare alle stampe un degno successore. Quando, tre anni e trecentocinquantamila sterline dopo, gli avveduti e lungimiranti discografici della major si vedono consegnare il master con le nuove registrazioni, non possono fare a meno di strabuzzare occhi ed orecchie. Sei lunghe composizioni suonate al rallentatore che sfumano una nell’altra, come fossero movimenti di un’unica suite che verrà divisa in due dalle facciate del vinile: una musica intensa e profonda ai limiti dell’intollerabile, melodie avare e quasi inintelligibili, ampi spazi strumentali con incredibili giochi di luci ed ombre, una cura maniacale per ogni dettaglio, la voce di Hollis che sembra strappare le corde vocali da cui esce per arrivare fino a Dio. Sembra impossibile che dietro questo disco si possano celare gli stessi autori di un singolo come Such A Shame, eppure è così: anche per i più scettici –primo fra tutti proprio chi vi scrive- il piatto è servito. E che piatto. Sotterrato definitivamente il synth, sono suoni impalpabili ed indistinti (violino, fiati, chitarra) quelli che introducono The Rainbow, scoprendo una dimensione parallela dalla quale si libera lentamente il ritmo. La voce di Mark Hollis, soffusa, eterea, sfuggente, arriva dopo qualche minuto accompagnando i suoni e facendosi essa stessa suono, liberando le pause e scoprendo i silenzi in una melodia delicatissima e quasi celestiale. Si sfocia in Eden senza soluzione di continuità: un ritmo lento spezzato dalle impennate della chitarra e dai guizzi dei fiati, fra oasi di silenzio e lampi accecanti di rumore, e la voce, naturalmente, materia sonora inaudita dalle incredibili modulazioni. Desire segue fra fortissimi chiaroscuri, fra pause profonde e implacabili silenzi rotti da impennate ritmiche e risucchiati in un finale cacofonico. E la voce, come sempre, a condurre il gioco e dettare le regole. Inheritance si libera da un ritmo lento e regolare, da suoni delicati e trasparenti fatti di poche note, di accordi tirati, di impercettibili tocchi, di emozioni sfuggenti; la voce traccia una melodia sensuale e sublime che si scopre poco a poco fino a rivelare tutta la sua potenza. Da I Believe In You si libera, ad un certo punto, un coro di angeli che fa pensare di essere giunti alla sospirata meta, quell’Eden che, a dire il vero, sembrava già a portata di mano. Wealth, delicata e rarefatta, chiude con un flusso d’organo celestiale, mentre la voce si libera sopra ogni altra cosa in una disperata richiesta di aiuto. D’ora in poi il pop non sarà più lo stesso. E Mark Hollis nemmeno.

da LFTS n.92

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