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Rock & Pop, le recensioni di LFTS/9

di Marco Tagliabue

12 dicembre 2010

Massimo VolumeNel frenetico passare dei dischi, dei nomi, degli anni, non ci ricordavamo quasi più di quanto bisogno ci fosse ancora di un progetto come quello dei Massimo Volume. Dal loro esordio nel 1993 con “Stanze” fino allo scioglimento nel 2002 dopo album preziosi come “Lungo i Bordi” (1995), “Da qui” (1997) e “Club Privé” (1999), erano trascorsi giusto dieci anni, quasi quanto quelli che li hanno separati da questo inaspettato e graditissimo ritorno. Dieci anni durante i quali ci eravamo fatti prendere da altre mode ed altri modi, durante i quali avevamo imparato ad apprezzare Emidio Clementi come scrittore pensando che questa fosse ormai la sua dimensione definitiva. Poi, improvvisamente, il nome della band è tornato in circolazione per una reunion live, ma nemmeno i più ottimisti avrebbero potuto immaginare un seguito in studio con un (capo)lavoro della portata del nuovissimo “Cattive Abitudini” (Venus/La Tempesta, anche in doppio vinile). Se la disperata liricità dei testi di Emidio Clementi e la potenza evocativa del suo recitativo non sono più una novità, se il drumming preciso di Vittoria Burattini è ormai una solida certezza, quasi una cassaforte per il sound dei Massimo Volume, sono l’entrata nella formazione del nuovo chitarrista Stefano Pilia (un nome di punta dello Stivale sotterraneo che condivide questa esperienza con numerosi altri progetti) e la perfetta fusione con la sei corde storica di Egle Sommacal la vera forza del disco. Si, perchè in questo album ci sono le chitarre più belle che mi sia capitato di ascoltare da un (bel) po’ di tempo a questa parte. Strumenti ora affilati ed urticanti, ora lirici ed avvolgenti, ma sempre in perfetta sincronia e scelta di tempo, in magico equilibrio e reciproco rispetto, impegnati in dialoghi dell’intensità di altri tempi (da Stills/Young ai Sonic Youth), che rappresentano il vero punto di forza del lavoro. Inutile allora perdersi in troppe citazioni: potrete elettrizzarvi con Litio o commuovervi con Mi piacerebbe ogni tanto averti qui, ma non dovete perdervi per nessun conto uno dei dieci, ma anche cinque dischi fondamentali di questo altrimenti arido 2010.

SwansUn altro ritorno del quale si sentiva il bisogno è quello degli Swans di Michael Gira, a quasi quindici anni di distanza dall’ultimo album in studio, “Soundtracks For The Blind” del 1996. Un ritorno non facile visto che, come si premura di ricordare lo stesso Gira nelle note del nuovissimo “My Father Will Guide Me Up A Rope To The Sky” (Young God Records, CD & LP), è stato possibile solo grazie ai proventi derivanti dalla vendita dal sito della label del CD/DVD ”I Am Not Insane” contenente, fra l’altro, le versioni demo dei pezzi che sarebbero finiti poi nell’album, ed alla prevendita del disco in fase di realizzazione a mille valorosi fans finanziatori (Einsturzende Neubauten docet!). Triste pensare che una delle band più importanti degli anni ottanta e di parte dei novanta sia costretta in tal modo ma, si sa, indipendenza e coraggio non sempre valgono a riempire il piatto. Nel ritorno degli Swans ci sono, in parti uguali, il nichilismo apocalittico/rumorista degli esordi di “Filth” (1983) e “Cop” (1984), il disperato romanticismo e la maestosa atmosfera mistica dei capolavori gemelli della maturità, “White Light From The Mouth Of Infinity” e “Love Of Life” (1991 e 92), la dimensione più distaccata, rilassata ed intimista del successivo progetto degli Angels Of Light. Il disco, sicuramente all’altezza delle prove migliori degli Swans, non mancherà di esaltare i vecchi fans della band, anche se difficilmente riuscirà a conquistargliene di nuovi. Una musica che, nonostante le aperture, non è per tutti i palati. No Words/No Thoughts è un’apertura durissima, apocalittica e sconvolgente, Reeling The Liars In stempera i toni con una ballata folkeggiante di ampio respiro. Jim e My Birth, cupa e corale in un disperato crescendo la prima, tesa affilata ed ossessiva la seconda, sono ancora un pugno sui denti. You Fucking People Make Me Sick, con un cameo vocale del protetto Devendra Banhart, inizia come una tenue ballata folk, magari un po’ demoniaca, per sfociare in un’orgia di intemperanze acustiche. Inside Madeline allinea una lunga ed inquietante intro strumentale in crescendo ad un tenue cantato, Eden Prison prosegue imponente, sepolcrale, ossessiva. La chiusura in discesa con Little Mouth, delicata e classicheggiante, è come un bicchiere d’acqua fresca al risveglio da un incubo. O forse era semplicemente un sogno un po’ diverso dagli altri?

The Black AngelsHo amato visceralmente i Black Angels di “Passover” (2006) e “Directions To See A Ghost” (2008) ma, forse proprio per questa ragione, non sono riuscito a reagire altrettanto bene all’ascolto del terzo capitolo della loro avvincente saga, il nuovo “Phosphene Dream”, uscito in CD e LP ormai da qualche settimana per la risorta Blue Horizon, label dal passato importante la cui esperienza si riteneva ormai archiviata per sempre. Medesimo package dei due precedenti lavori su Light In The Attic, quasi a voler sottolineare un senso di continuità nel comune progetto grafico, ma un impianto strutturale e strumentale del tutto diverso. Qualcuno ha voluto a tutti i costi vedere nella pulizia del suono, nella semplicità di fondo delle tracce, negli ammiccamenti al pop ed al garage degli anni sessanta, un passo avanti nella ricerca di una forma canzone più accessibile al gusto di un pubblico un po’ meno “sfasato”…  Chi invece ha amato le lunghe dilatazioni psichedeliche dei precedenti lavori, e lo spirito più anarchico, libero e selvatico che le permeava, avrà modo di sobbalzare sulla poltrona solo con l’iniziale, splendida Bad Vibrations. Ma sarà una pillola dolcissima che renderà il boccone ancora più amaro. Nulla di drammatico, per carità: ne uscissero più spesso, per certi versi, di dischi così! Ma l’amante tradito dalla cortigiana prediletta, si sa, vede nera ogni sfumatura di grigio. Però, lasciatemelo dire, i coretti, le svisate d’organo, la smaccata orecchiabilità di confetti in puro spirito sixities come, per citarne soltanto un paio, Sunday Afternoon o Telephone, rimangono un po’ difficili da digerire… 

Black MountainDopo un lavoro mastodontico e, per certi versi, definitivo come il precedente “In The Future” del 2008, un vero e proprio doppio di altri tempi, anche i Black Mountain hanno registrato valvole ed ingranaggi. Con il nuovissimo “Wilderness Heart”, edito in CD e vinile con coupon per il download gratuito per i soliti tipi della JagJaguwar, sono tornati ad un formato più ristretto, innanzitutto, ed hanno limato certe asperità, delimitato gli orizzonti delle proprie fughe strumentali, cercato più metodo pur mantenendo un pizzico di follia. Hanno voluto, insomma, riportare in strutture più classiche quella classicità che è già insita nel loro suono, ma lo hanno fatto senza snaturarsi, senza rincorrere improbabili chimere, senza inutili strizzatine d’occhio. Il loro hard rock psichedelico con venature progressive continua a lanciare fortissimi segnali nella potenza di brani quali Rollercoaster, Let Spirits Ride, Wilderness Heart, scoprendo anche dolcissime oasi bucoliche in Radiant Hearts, Buried By The Blues o nella conclusiva Sadie, mentre le parti vocali affidate a Stephen McBean ed alla dolcissima Amber Webber appaiono sempre più calibrate e convincenti. Chi li ha visti dal vivo nel recente tour che ha interessato anche il nostro Paese, poi, difficilmente potrà dimenticarseli.