Rock & Pop, le recensioni di LFTS/10
di Marco Tagliabue
24 dicembre 2010
Per il suo progetto Sacri Cuori, il chitarrista Antonio Gramentieri ha riunito un cast da urlo: oltre alla band vera e propria che comprende, insieme a lui, John Convertino (batteria), Howe Gelb (piano, chitarra e molto occasionalmente voce), Nick Luca (piano e organo), Thoger Lund (casio) e Massimo Sbaragli (contrabbasso), uno stuolo di collaboratori del calibro di Marc Ribot e Bill Elm alla chitarra, James Chance (proprio lui!) a sax e piano, John Parish alla voce, Christian Ravaglioli all’oboe, Diego Sapignoli alle percussioni, e ci fermiamo qui. Un progetto tutto italiano insomma, che si avvale anche dell’opera di qualificati tecnici stranieri, nato sulle vie polverose del Festival “Strade Blu”, del quale Gramentieri è da tempo organizzatore. Calexico, Giant Sand e Friend Of Dean Martinez, coinvolti a vario titoli attraverso alcuni dei loro membri, rappresentano un’indicazione più che sufficiente per inquadrare le coordinate di questo ottimo lavoro. Desert-rock quasi completamente strumentale, naturalmente, e del migliore in circolazione da tempo a questa parte. Nate come colonna sonora per il film “The Gilgamesh Tale” di Heriz Bhodi Anam, le registrazioni presenti in questo “Douglas & Dawn” (499 copie numerate in vinile bianco, oltre al coupon per il download in formato MP3, per l’italianissima Interbang Records) si adattano perfettamente a quella lunga sequenza di immagini che la potenza cinematica del loro suono non faticherà ad evocare nella mente di ogni ascoltatore. Il sole accecante genera visioni che dipingono un sound il quale, partendo da una tradizionale ricetta country/blues, si colora di elementi strani, inaspettati, piccole intemperanze che enfatizzano una componente allucinogena più o meno evidente, ma mai del tutto nascosta, che altera le percezioni sensoriali e fa perdere il senso del tempo e dello spazio. Ecco allora, fra i gerani sul balcone, spuntare improvvisamente il peyote…mentre l’orizzonte assume tinte e contorni completamente diversi…
…è sempre Interbang Records, una label da tenere decisamente d’occhio, a curare l’edizione a 33 giri (1000 copie in vinile rosso porpora, su etichetta Gusstaff la versione CD) dell’ultimo, splendido album di Hugo Race “Fatalists”, la terza pubblicazione che lo riguarda in questo fervido 2010, dopo “BKO” a nome del collettivo Dirtmusic, un progetto condiviso con Chris Brokaw e Chris Eckman, ed il lavoro solista titolato ”Between Hemispheres”, improntato a soluzioni strumentali più aeree e sperimentali. Dal giorno in cui Hugo abbandonò la nativa Australia al seguito dei Bad Seeds di “From Here To Eternity” sembra passato davvero un secolo: una carriera da esiliato volontario, un’anima inquieta in pellegrinaggio continuo che lo hanno portato ad attraversare epoche e continenti, stili e movimenti, senza posare il cappello da nessuna parte, senza ferire mai fino in fondo nonostante una produzione sconfinata che vanta più d’una punta di diamante. “Fatalists” riporta Hugo alla sorgente del folk e del blues con un progetto acustico condiviso con la chitarra di Antonio Gramentieri e le percussioni di Diego Sapignoli dei Sacri Cuori, con il violino di Vicky Brown ed il contrabbasso di Eric Van Loo. Otto canzoni scarne, ombrose, per certi versi disperate, che mettono completamente a nudo lo spirito errante di Hugo nel solco di quella tradizione che da Leonard Cohen porta a Mark Lanegan o all’Howe Gelb solista. La sua voce è calda e profonda come non mai, le atmosfere sono crude ed essenziali: melodie che non concedono nulla, che non si servono di facili stratagemmi ma restituiscono, ascolto dopo ascolto, la passione e la disarmante sincerità di chi le ha messe in musica. Dall’iniziale Call Her Name alla conclusiva Nightvision, attraverso la ripresa di quella In The Pines (altrimenti nota come Where Did You Sleep Last Night) che fu anche dei Nirvana unplugged, il ritratto dolente e spietato di un artista vero, outsider per vocazione.
Lo spirito di Howe Gelb e dei suoi Giant Sand incombe in maniera nemmeno troppo velata sia sui Sacri Cuori che su Hugo Race, come del resto su buona parte di quel rock ispirato ad un deserto che è soprattutto luogo dell’anima. Insieme alla nutrita serie di ristampe volte a festeggiare il venticinquennale del debutto discografico della band, il contratto con la Fire Recordings è inaugurato anche dal nuovo “Blurry Blue Mountain” (CD e LP in edizione limitata a 500 copie in vinile blu e 500 copie picture disc), che segue a distanza di due anni il precedente “Provisions”. Come il legno sul quale è forgiata la copertina, il suono dei Giant Sand (nella stessa formazione dell’ultimo album, con Gelb affiancato dai suoi nuovi compagni di strada di origine danese) tende ormai ad una classicità che anche una buona pialla riuscirebbe difficilmente a scalfire. Sembra proprio che il confine fra i lavori solisti di Howe Gelb e quelli a nome Giant Sand sia sempre più labile se non addirittura inesistente, come se l’identificazione del grande “vecchio” con la sua creatura abbia raggiunto ormai la perfetta sublimazione. Un suono sempre più roots, sempre più americano, che da una solida matrice country rock sempre meno disposta a sporcarsi di elettricità, ingloba qualche elemento jazz, un pizzico di blues, una manciata di swing, un po’ di musica di frontiera. Un disco malinconico e fuggente in cui la voce ed il ruolo di Gelb assumono sempre più quei connotati da “crooner” che stanno caratterizzando da anni la maturità artistica dell’Uomo. Musica per ore notturne non ancora rischiarate dal mattino, per vecchi locali fumosi in prossimità dell’orario di chiusura quando, dimessi gli abiti di scena, camerieri e ballerine tornano uomini e donne normali, semplici, forse un poco delusi dalla quella vita alla quale, ormai, non hanno più nulla da chiedere ma, assolutamente, senza alcun rimpianto.
Una delle soprese più piacevoli di questa fine 2010 è stato “Minor White”, il nuovo album di Emma Tricca, finalmente distribuito anche in Italia dopo il recente debutto sul mercato inglese. Romana di nascita, ma cittadina del mondo per scelta e vocazione, Emma si è stabilita a Londra dopo avere rimbalzato fra gli oceani, da Oxford al Greenwich Village. La sua è una musica eterna, un folk delicatissimo e suadente pizzicato sulle sei corde in perfetto fingerpicking, sostenuto da una voce parimenti carezzevole che affida alla musica sogni, speranze, visioni. Ciò che eleva queste canzoni al di sopra delle vagonate di lavori sulla stessa lunghezza d’onda è, innanzitutto, la loro qualità, mai meno che buona, e poi la voce di Emma, in grado di reggere paragoni davvero ingombranti. Se amate le melodie autunnali e non riuscite a fare a meno di Nick Drake nemmeno in piena estate, troverete in “Minor White” e nei suoi dieci confetti acustici una ragione in più per sentirvi ancora innamorati. Anche se, per esperienza, sapete già che ogni amore è destinato a finire male…