SHEMEKIA COPELAND – The Uncivil War

Copertina

Shemekia Copeland – Uncivil War (Alligator/IRD 2020)

L’attesa per questo nuovo disco di Shemekia Copeland era molta, complice il meritatissimo premio conseguito dal disco precedente come album dell’anno ai Blues music Awards.

E l’attesa non viene certo tradita dalla grintosa artista che senza cambiare troppo la ricetta (squadra vincente non si cambia) torna, sempre sotto l’ala della Alligator, con un disco che non delude e conferma la sua statura d’interprete del blues a tutto tondo, nelle sue varie forme, dal rock blues granitico al gospel alla soul ballad di stampo sudista, facendo al tempo stesso un disco che scorre lungo il filo delle lotte per i diritti civili, un tema quanto mai tornato drammaticamente di attualità, soprattutto in America, negli ultimi mesi dell’amministrazione Trump, quasi tutte le lotte e le marce degli anni sessanta fossero state cancellate con un violento colpo di spugna.

Con Will Kimbrough di nuovo seduto in regia e con una serie di collaboratori da urlo, la Copeland mira sicuramente a bissare il successo di America’s Child. Già dalla composizione inziale, una ruggente Clotilda’s On Fire che vede alla chitarra un cameo di Jason Isbell, si percepisce la stoffa del disco che si accende ancor più con il successivo Walk Until I Ride in cui la Copeland ricorre alla lap steel sempre ineccepibile di Jerry Douglas, mentre il produttore si occupa dei cori.

Ritroviamo Douglas, ma stavolta col dobro, nel terzo brano, più rilassato come struttura, più intimo, si tratta della title track in cui la voce stavolta più carezzevole di Shemekia è aiutata dai cori degli Orphan Brigade, e oltre a Douglas c’è anche il suo compare Sam Bush con uno struggente intervento di mandolino.

Money Makes You Ugly torna su temi importanti ed è attraversata dai brividi elettrici della chitarra del giovane Christone Kingfish, l’organo di Phil Madeira è invece il protagonista di Dirty Saint un brano dall’andatura allegra in stile New Orleans, la solista chitarra è qui affidata al producer.

La cover della rolligstoniana Under My Thumb è una sorpresa, ancor più lenta rispetto a quella proposta dal vivo dai Blind Faith nel 1969, particolarmente avvolgente ed al tempo stesso mantenendo del tutto la carica emotiva, nonostante un arrangiamento minimale basato sulla chitarra di Kimbrough, sulle percussioni e sul basso di Lex Price (presente in tutto il disco).

L’energia torna con Apple Pie And A .45, dal testo eloquente e con una limpida interpretazione vocale della titolare del disco, all’insegna della miglior scuola del rock-blues. Un testo importante anche per Give God The Blues, sorretta da una batteria in levare che fa sembrare il brano un hard-reggae-blues, altra composizione che non delude. L’inconfondibile chitarra di Duane Eddy è poi il marchio di fabbrica dell’ottima She Don’t Wear Pink dall’andatura galoppante, altra perla inanellata nel filo allestito dalla Copeland e dal suo producer. No Heart At All è vibrante e col testo scandito quasi in forma recitativa, una sorta di rap-rock lento. Più rock che rap.

Un intenso tema gospel è il filo conduttore di in The Dark, composizione lenta e struggente che vede ospite la chitarra del grande Steve Cropper, il Colonnello come lo chiamavano nel film i Blues Brothers, e il botta e risposta tra la sua sei corde e la voce di Shemekia è ineccepibile.

Country-soul è l’arrangiamento vincente della conclusiva Love Song, una canzone di speranza per chiudere in positivo un disco doloroso ed al tempo stesso un omaggio di Shemekia al padre Johnny, che del brano è l’autore.

Le premesse per bissare il successo di America’s Child ci sono davvero tutte.

Tags:

Non è più possibile commentare.