Pere Ubu 1988/1993: The Return Of The Avant-Garage
Il nome dei Pere Ubu riappare, a sorpresa, sul finire del 1987. Il processo di disgregazione che aveva travolto la creatura di David Thomas nell’inverno del 1982, dopo la pubblicazione del pur valido Song Of The Bailing Man, oltre a chiudere in maniera piuttosto violenta il primo fondamentale ciclo di vita della band, si era dissolto nei rivoli, per la verità poco rigogliosi, delle carriere soliste degli ormai ex membri degli Ubu. Tom Herman prima da solo e poi con i suoi Tripod Jimmie, e Scott Krauss, Tony Maimone e Jim Jones con gli Home And Garden avrebbero dato alle stampe opere interessanti ma destinate all’oblio dall’ineluttabile destino che regola le umane vicende. Più complicato il discorso intorno al corpulento cantante fondatore dei Pere Ubu, che tra il 1981 ed il 1987 scodella ben cinque album (riuniti più o meno dieci anni dopo nel box set Monster dalla Cooking Vinyl), che mettono a nudo la sua anima di bluesman surrealista a mezza strada fra Captain Beefheart e Snakefinger, in una dimensione più intima e bucolica molto lontana dalle atmosfere sature del gruppo madre. Nel 1986 Allen Ravenstine e Tony Maimone si uniscono a David Thomas ed ai suoi Wooden Birds per incidere l’album Blame The Messenger. Il gruppo include anche un altro ex, Jim Jones e l’ex batterista degli Henry Cow Chris Cutler. Scott Krauss, dopo aver assistito ad un concerto della band a Cleveland, accetta di unirsi al progetto dei Wooden Birds. Di fatto, i Pere Ubu sono tornati sotto mentite spoglie…allora perché non riprendere in mano il vecchio giocattolo e chiamarlo con il suo vero nome? Nel 1987 si ricostituiscono i Pere Ubu con Thomas, Cutler, Jones, Krauss, Ravenstine, Maymone oltre al fisarmonicista John Kirkpatrick e intraprendono un tour a sorpresa in dodici città americane. La risposta del pubblico va al di là di ogni più rosea aspettativa e, per coronare il ritorno della band, manca soltanto il passo più importante.
The Tenement Year (Fontana, 1988) è, senza mezzi termini, un autentico capolavoro, un’opera seconda, forse, soltanto all’epocale debutto di dieci anni prima. The Tenement Year è la nuova danza moderna, il valzer dell’Apocalisse che muove i passi su un mondo in piena rivoluzione tecnologica, un universo che, con l’occhio disincantato della maturità, disegna nuovi contorni agli stessi fantasmi di un tempo ed al quale, lontani dai minacciosi eccessi di un furore giovanile ormai domato, i Pere Ubu rispondono con sarcastico distacco, con scherzosi esorcismi, con rassegnato disimpegno. E, proprio come allora, grande protagonista –oltre alla voce di un David Thomas sempre più padrone dei propri mezzi- è il synth di Allen Ravenstine, una vera e propria macchina da guerra onnipresente con la sua opera di “disturbo”, con mille invenzioni che tracciano altrettanti sfregi su una tela già astratta e visionaria, che ospita liriche surreali e grottesche ma anche amarezza e disillusione, ritmiche irruenti e implacabili, un anarchismo sonoro che scopre, anche nelle jam più sfrenate, l’inedito filo rosso di una ricerca melodica mai così attenta e riuscita. Il sipario si apre esattamente come un tempo: sibili di synth, una chitarra distorta ed i nervi tesi nella voce di David Thomas. Dieci anni prima si chiamava Non Alignment Pack, ora è Something’s Gotta Give, ma i Pere Ubu sono sempre gli stessi. In George Had A Hat sassofono e synth si rincorrono impazziti mentre Thomas ripete nel caos lo stesso demente ritornello, il furore si placa negli effluvi jazzistici di un breve intermezzo prima che ogni cosa venga trascinata in un vortice folle e visionario. Talk To Me rispolvera le chitarre insieme ad una grande performance vocale di Thomas: quella solista insegue temi quasi Morriconiani su un tessuto reso troppo sconnesso dagli echi distorti, meno rispettosi, delle altre sei corde e dai puntelli del synth. Più rilassata, nonostante qualche apertura ad un caos controllato, è Busman’s Honeymoon, melodia folk, quasi irlandese, e la bella frase melodica della fisarmonica di Kirkpatrick. Say Goodbye riporta in primo piano le chitarre in una sorta di tribalismo garage attraversato dal solito synth, mentre in Universal Vibration Jim Jones dipana il proprio tornado chitarristico lungo percorsi sempre più tortuosi in parallelo alle piallate di mastro Ravenstine. Miss You prova a fare ordine con una bella fisarmonica ed un tono generale più gentile e meno concitato, nonostante i soliti dispetti di synth e chitarra. Gli stessi strumenti che si rincorrono, giocando a rimpiattino, lungo la successiva Dream The Moon, che registra le solite interferenze sul tentativo di normalizzazione della voce di David Thomas. Con Rhythm King i Pere Ubu provano a dare la loro definizione di reggae music, con ritmi in levare sempre cangianti puntellati da chitarra e synth. In The Hollow Earth la voce di Thomas traccia i contorni di una delle sue melodie più memorabili, anche se l’idillio è rotto ben presto da un lungo intermezzo strumentale un po’ meno “controllato”… E mentre cala il sipario scorrono le note di We Have Technology, ballata dolente e sofferta che impone al disco una chiusura amara e malinconica, ma di grandissimo spessore, con la presa di coscienza dell’inutilità del folle armamentario che ci circonda: è questo il manifesto tenero e mesto dei nuovi Pere Ubu, vittime rassegnate dello stesso tragico destino di un tempo.
In “The Tenement Year” il sound era molto carico e grezzo. Cercare di ritrovarlo in un nuovo album sarebbe stato come fare la parodia di noi stessi. Al contrario, volevamo creare qualcosa che fosse esattamente agli antipodi, un album essenziale, dagli arrangiamenti ermetici e con un’immagine lineare. La Casa Discografica voleva che tornassimo alle nostre radici…qualsiasi esse fossero, e questo ci ha notevolmente preoccupato dal momento che non ne abbiamo! A meno che non intendessero il pop. E questo ci ha reso felici. Nessuno ci aveva mai chiesto di fare un album pop.
Ecco nelle parole dello stesso Thomas la pietra dello scandalo, quel Cloudland (Fontana, 1989) che avrebbe fatto arricciare il naso a più di un purista dell’Ubu sound. Via i panorami di degrado, urbano o mentale che fosse, a favore di canzoni estroverse prima di tutto d’amore; via i tessuti strumentali accidentati e tortuosi a favore di un manierismo pop che vuole dire soprattutto pulizia: nei suoni, nella voce, nella melodia. E via, soprattutto, il synth di Allen Ravenstine, ridotto a ruolo di pura comparsa. Ed ora ci si aspetterebbe una stroncatura, ma il “problema” è che Cloudland rimane un prodotto d’alta classe: impensabile, forse, per i folli eccentrici del lavoro precedente (qui coadiuvati da Stephen Hague, in passato con i Pet Shop Boys…) ma tutt’altro che disprezzabile a mente sgombra da preconcetti. Breath, in apertura, nella sua formale perfezione pop saccheggia l’andatura di Every Breath You Take dei Police, mentre in Cry, addirittura, gli Ubu provano –con ottimi risultati- a fare il verso agli U2, in un brano comunque di indubbio valore. Race The Sun è un rock’n’roll tirato e melodico e Why Go It Alone un bel pastiche con un ritornello accattivante. Waiting For Mary, il singolo estratto dall’album, è la quintessenza del pop secondo i Pere Ubu, ovvero quanto di più orecchiabile i Nostri abbiano mai messo su nastro: fa una certa tenerezza, o forse sarebbe meglio dire rabbia, sentire lo sbuffo anonimo del synth ad ogni ritornello…sembra che Ravenstine, rassegnato, stia per gettare la spugna. Ice Cream Truck, molto orecchiabile, è puntellata da una chitarrina deliziosamente retro’ ed anche per la successiva Bus Called Happiness c’è quasi da stropicciarsi gli occhi: strofa, ritornello, cori…ma sono i Pere Ubu? Love Love Love, un vecchio brano di Peter Laughner, si trasforma in un danzereccio synth pop anni ’80 salvo cedere, nel finale, alla voce di un David Thomas finalmente un po’ più arrabbiato. Anche Lost Nation Road ha poca voglia di graffiare, mentre Nevada!, una sorta di rockabilly un po’ demente punteggiato da una piacevole aria da non sense, riporta il fantasma dei vecchi Ubu che non ci abbandona nella successiva Flat e nel valzer chitarristico di The Waltz. Pushin’ rigioca la carta del rock’n’roll aspro e tirato, seppur canonizzato, e Monday Night, deliziosa ballata acustica puntellata dal synth, chiude in bellezza un album per il quale, non si fosse trattato dei Pere Ubu, avremmo sprecato termini certo più entusiasti.
Ma la band sembra invece averci preso gusto, visto che anche l’album successivo Worlds In Collision (Fontana, 1991) gioca esattamente la stessa carta. Persi per strada Cutler e Hague, quest’ultimo rimpiazzato dall’ex Captain Beefheart Eric Drew Feldman dietro ogni tipo di tastiera, con Allen Ravenstine ridotto a semplice turnista nei credits di quattro brani, i Pere Ubu tentano di ripetersi aumentando ulteriormente la dose di zuccheri con un disco ancora più docile del precedente. Ma la classe, si sa, non è acqua e tracce come Oh Caterine, una splendida ballata acustica lirica, intensa ed emozionale, come il singolo I Hear They Smoke The Barbecue, un bel rock’n’roll tirato in perfetto stile “alternativo da FM”, come Cry Cry Cry, con armonie vocali d’altri tempi che ricordano il blues cosmico di Janis Joplin & Co., sono lì a dimostrarlo. Lo spirito perduto dei tempi andati rivive negli episodi nei quali lo scienziato pazzo Ravenstine sembra comporre il proprio epitaffio, e specialmente in Life Of Riley, Turpentine e nella conclusiva Winter In Firelands. Altrove gli Ubu sembrano razziare un po’ qua e là: qualche accordo rubato a Mission Impossible in Goodnite Irene, qualche chitarrone preso in prestito al grunge in Mirror Man, un po’ di Wall Of Woodoo (e quindi di Morricone) nella title track, qualche particella Springsteeniana in Don’t Look Back. Pochi, per fortuna, i momenti di imbarazzo, come nelle melodie fin troppo compassate di Play Back e Nobody Knows, quest’ultima con tanto di controcori e velati accenti Rap. Con Worlds In Collision i Pere Ubu, pur riuscendo a confezionare, ancora una volta, un prodotto di classe, rinunciano ad una delle prerogative che avevano contribuito ad alimentare il loro mito, quella di continuare a stupire, di non offrire certezze, di infrangere le regole. Sembrano apparire all’orizzonte nuvoloni minacciosi, carichi di pioggia, che gettano ombre sul futuro della band: nessuno riesce ad immaginare come andrà a finire, mentre il saggio Ravenstine abbandona definitivamente le scene per accettare un lavoro con una aviolinea.
The Fontana Years, gli anni Fontana –dal nome della major che ha accompagnato la svolta pop del gruppo- si chiudono nel 1993 con la pubblicazione di Story Of My Life, album ambiguo costituito –dice il maligno- in buona parte da scarti di registrazione delle prove precedenti. Il tono generale è quello del pop zuccheroso di Kathleen e Sleep Walk, anche se non mancano i tentativi di riportare il sound alle atmosfere più torbide delle origini, come testimoniano Wasted, Heartbreak Garage e Louisiana Train Wreck. Ma il clima è di smobilitazione, e si sente, ed un altro ciclo sta per chiudersi. Questa volta, però, l’attesa sarà decisamente più breve e, soprattutto, ben ricompensata.
da LFTS n.84
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