C’era una volta il West

Ci sono voluti più di vent’anni, ed un paio di compagni rimasti sul ciglio della strada, per riannodare a freddo i fili della memoria in direzione di un passato che, evidentemente, ha lasciato ferite che neanche una mezza eternità è riuscita a rimarginare. Il rimpianto per un’occasione mancata, per una storia che avrebbe potuto finire diversamente. E la rabbia, una rabbia addomesticata dagli anni e da qualche capello bianco ma non ancora sopita, di chi è costretto a rinnegare la propria creatura nel momento in cui sembrano dischiudersi le porte del successo, quello vero, quello sognato: di chi preferisce dare un calcio alla fortuna per dar retta alla vocina del Grillo Parlante. Bastò un singolo di successo, Mexican Radio, ed uno dei primi video a girare nel mercato indipendente, per far sentire agli squali l’odore acre del sangue ed a quattro ragazzi di campagna quello, non meno accattivante, di inchiostro verde e filigrana. Era il 1982, ma avrebbe potuto essere il 1972 come pure il 1992: la storia, in fondo, è sempre la stessa e la conclusione non può essere che una. Illusioni, divergenze, litigi e tanti saluti a chi non ce la fa più. Peccato, perché in questo caso lo squalo si chiama I.R.S. Record e rappresenta una delle label indipendenti più celebrate della prima metà degli anni ottanta: una piccola ferita anche per il cuore di noi, semplici appassionati, sempre troppo facili al mito. Se vi capita di parlare con Stan Ridgway non toccate l’argomento I.R.S., potreste scoprire risvolti inediti di un personaggio altrimenti incline alla calma ed alla compostezza. Finì con il leader da una parte, ad intraprendere una carriera solista che fra alti, almeno un paio di altissimi e qualche basso più o meno tale è arrivata a lambire il 2004 con l’ottimo Snakebite, e gli altri membri del gruppo dall’altra, a reclutare un nuovo volto e sfruttare una fortunata ragione sociale per due album dimenticati da Dio e dagli uomini, che nulla avevano in comune con il suono dei veri Wall Of Voodoo. Vengono in mente i Velvet Underground dopo la cacciata di John Cale e l’abbandono di Lou Reed. Almeno, gli uni come gli altri, avessero avuto il coraggio ed il buon gusto di cambiare il nome della band. Ma una fine ingloriosa non può scalfire il ricordo di uno dei gruppi più moderni e rivoluzionari che il rock abbia partorito e di una musica che, davvero, non si era mai udita prima e che si sarebbe risentita solo moltissimo tempo dopo. Una rivoluzione condotta in punta di piedi su un terreno fertile ed inesauribile, quello, mai così strapazzato, della tradizione a stelle e strisce. E, in questo caso, lo choc proviene dall’elettronica: un’elettronica ingenua ed ancora primitiva, figlia degenere della tecnologia del proprio tempo, che poggia sulle ritmiche marziali di drum machine oppressive e metalliche, sugli aspri sibili e sui dissonanti punzecchiamenti di sintetizzatori alienati. Uno strano matrimonio che ha il suo ideale fiocco azzurro nella cover rispettosa e dissacrante al tempo stesso, ma certo difficilmente riconoscibile, della Ring Of Fire di Johnny Cash che fa bella mostra di se nel primo parto vinilitico della band, l’omonimo EP del 1980 ribattezzato The Index Masters, dal nome della sconosciuta etichetta che lo pubblicò in origine, nella riedizione in digitale su Illegal del 1991 con l’aggiunta di dieci tracce tratte da un concerto del 1979. Se infine appuntiamo che il retro di Ring Of Fire, che vide anche la luce su singolo in un improbabile tentativo di traino del mini album, sarebbe stato l’incredibile medley da Ennio Morricone Hang’em High/The Good, The Bad & The Ugly, tratto da quelle acerbe registrazioni live, abbiamo chiuso definitivamente il cerchio. (…)

da LFTS n.76

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