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Qualche (disordinato) appunto di viaggio

di Marco Tagliabue

20 maggio 2011

Content A rovistare fra le novità, qualche mese fa, sembrava di essere tornati indietro di trent’anni. I nuovi album di Wire e Gang Of Four contemporaneamente sul mercato? Se per la band di Colin Newman la sorpresa era decisamente mitigata da un ritorno a grandissimi livelli che negli ultimi anni aveva già espresso ottimi lavori del calibro di “Send” (2003) e “Object 47″ (2008), il lungo silenzio dal quale uscivano i Gang Of Four ed il tenore delle loro precedenti e ormai lontane prove in studio, potevano dare adito a qualche ragionevole dubbio. Non paghi di averci lasciato come ultima testimonianza inedita una brodaglia in salsa electro/dance come “Shrinkwrapped” del 1995, Andy Gill & Co. esattamente dieci anni dopo, nel 2005,  si erano permessi di fare anche peggio, assemblando con il doppio “Return The Gift” un’ inutile raccolta di vecchi classici rivisitati a fini di lucro, non foss’altro per celebrare in prima persona un sound, il loro, che in quegli anni di riflusso aveva elargito gloria e pecunia a cani e porci. Alla luce di quello che ascoltiamo oggi, dobbiamo però ammettere che ritrovare quelle sonorità, rimettere le mani su quei brani, non può che aver fatto bene ai Gang Of Four ed al loro amor proprio, spingendoli a reiterare nella direzione giusta. “Content” (2011) è davvero un ottimo disco, ispido, frenetico,  pulsante, schizofrenico, quadrato e soprattutto rock, sulla scia dei lavori migliori del periodo storico, “Entertainment” (1979) e “Solid Gold” (1981), immediatamente dietro ai quali si pone per contenuti e rilevanza artistica.  Unico cruccio rimane quello di non averli potuti ascoltare dal vivo dalle nostre parti, causa annullamento dell’intera tournee italiana.  “Red Barked Tree” (2011) ci restituisce invece gli Wire in una dimensione prossima a quel pop sofisticato che era stato anche il tratto domimante del precedente “Object 47″.  Anche se non mancano le impennate ritmiche ed i momenti in cui la piena sembra travolgere gli argini, alla fine il fiume ritorna sempre nel proprio letto e scorre sereno il suo corso fino alla foce naturale. Le bottiglie in copertina a volte paiono traballare un po’, ma non rischiano mai di finire a pezzi. Canzoni e melodie sembrano sbocciare Red Barked Treedalla penna di Colin Newman e compagni con disarmante semplicità, tanto che alla fine affiora il sospetto che cominci a subentrare un po’ di mestiere. In ogni caso, tanto di cappello. La recente tournee nel nostro Paese ci ha confermato che questi terribili vecchietti paiono divertirsi ancora molto, e noi almeno quanto loro. 

Per coloro che volessero continuare a bearsi di queste sonorità, un passaggio  ideale è quello  verso “Ghost  Trees Where To Disappear” (2011), secondo album dei bolognesi JoyCut: un disco che nel 1981 avrebbe fatto sfracelli… Al di là della fin troppo facile ironia, va detto che non di sola musica derivativa si tratta: se l’inevitabile collocazione è quella, appunto, dell’Inghilterra dei primi anni ottanta e dei suoi eroi crepuscolari, Cure e Joy Division in testa, ai giovani emiliani va riconosciuta la capacità di scrivere belle canzoni con estrema facilità e di confezionarle in maniera tale da affiancare un originale tocco personale all’ABC del perfetto post-punker. Il risultato è un album godibilissimo, scuro quanto basta, che ha tutte le potenzialità per andare oltre il pubblico di stretta osservanza… Per una volta ci piacerebbe credere alle favole…

JoyCut

Confesso che all’inizio ho tentato di resistere, di rimanerne fuori.  Alla naturale ritrosia verso quello che molta stampa vuole far passare come l’hype del momento, come il disco irrinunciabile di questo scorcio d’anno e fors’anche di millennio, si era aggiunta l’avversione per una copertina a mio giudizio piuttosto orribile, un concentrato di kitsch e cattivo gusto che, per fortuna, non riflette nemmeno lontanamente il contenuto dell’album. Ma di tutto ciò, naturalmente, te ne puoi rendere conto solo quando l’hai ascoltato, questo benedetto album. Per un po’ ho provato ad evitarlo, insomma.  Poi mi è bastato incrociarne una bella copia in vinile ed avere la possibilità di ascoltarne qualche brano in cuffia dal rivenditore, per Anna Calvicambiare immediatamente idea e portarmelo subito a casa, questo maledetto album. Copertina a parte, ”Anna Calvi” (2011)  è davvero un disco molto bello, proprio a cominciare dallo splendido strumentale che lo inaugura e che costituisce, di fatto, lo Stargate per il suo piccolo mondo affatto dorato. Chitarrine twang portate allo spasimo fra luci (poche) e (tante) ombre, fra pause e ripartenze, in un crescendo ritmico ed emozionale che non lascia scampo. Spaghetti western allo scoccare della mezzanotte in un cimitero sconsacrato. E poi una serie di ballate scheletriche dalle tinte decisamente fosche, protagoniste sempre le stesse chitarre piangenti ed i toni spesso disperati della voce dell’inglesissima Anna, che hanno innanzitutto il pregio di essere grandi canzoni e poi quello di rivelare al mondo un’artista vera, che non sappiamo se sarà destinata al successo od a tornare in quell’oscurità dalla quale ha appena messo fuori la testa, ma che, in ogni caso, ci ha regalato un disco praticamente perfetto. Cosa che ormai non capita proprio tutti i giorni. I fan di Nick Cave e PJ Harvey potrebbero gridare al miracolo… 

Last of the country gentlemen

Un altro artista che è riuscito a mettersi a nudo con una sincerità disarmante, a scavare nella propria anima senza ritegno alcuno, è Josh T.Pearson, recentemente tornato alla luce dopo anni di esilio nel labirinto dei propri fantasmi con un disco per il quale si sono già sprecati aggettivi piuttosto inconsueti. I pochi che lo ricordavano alla guida dei Lift To Experience di “The Texas Jerusalem Crossroads”, dovranno cambiare completamente tiro. Dopo quelle divagazioni noise/psycho/shoegaze , Josh torna alla propria voce, alla chitarra acustica, ad un violino e poco più. “Last Of The Country Gentlemen” (2011) è decisamente un disco d’altri tempi, che richiede impegno, partecipazione ed un ascolto “attivo” al quale non siamo abituati. Una costanza che sarà sicuramente ben ricompensata: coloro che riusciranno a passare dalla prima fuorviante sensazione di noia alla consapevolezza di avere fra le mani uno di quei dischi che non escono tutti gli anni, difficilmente riusciranno a staccarsi dal suo fatale abbraccio nei mesi che seguiranno. Canzoni mediamente lunghe caratterizzate da melodie spesso contorte, che si abbarbicano negli anfratti di quelle note slegate, che si adagiano su un letto di vetri sottili con una leggerezza che ha un che di miracoloso. Fa quasi paura pensarci, ma le affinità più prossime sono quelle con il Tim Buckley interstellare di “Happy Sad” o “Starsailor”. 

several shades of why

 E, in un certo senso, anche J. Mascis si è messo a nudo. O, meglio, con “Several Shades Of Why” che, a voler essere puntigliosi, è il suo primo album solista (per le altre prove in solitaria aveva adottato degli pseudonimi), ha messo a nudo le proprie canzoni.   Se riuscite ad immaginarvi i Dinosaur Jr. in versione unplugged, non dovreste andare lontani dalla dimensione di questo lavoro. Che J. Mascis sapesse scrivere grandi canzoni era cosa nota da almeno vent’anni, che le stesse funzionassero ottimamente anche senza il consueto carico di elettricità è un fatto che ormai non può sfuggire a nessuno. Il fantasma di Neil Young assume contorni sempre più precisi in questo pugno di canzoni acustiche, scarne, strascicate e sofferte che, tuttavia, non rinunciano mai a quella melodia sghemba, semplice ed immediata,  che è il vero marchio di fabbrica del Nostro. Che, quando proprio non ce la fa più, riesce anche a lasciarsi andare con la sua amata Fender in un paio di brani per mettere il sigillo, quello vero, su un disco che gli appartiene come pochi altri.