Louisville, Kentucky.
di Marco Tagliabue
24 agosto 2013
Dieci e più anni fa, in pieno fulgore post-rock, gli Slint te li ritrovavi a colazione, pranzo e cena. L’unico cruccio è che Vespa non abbia mai dedicato loro una puntata di Porta a Porta…chissà, forse non ha fatto in tempo, travolto, pure lui, da nuove mode e nuovi miti. Pluri citati, pluri ringraziati, pluri suonati, pluri copiati, i riconosciuti padri fondatori del post-rock sono riusciti a prendersi una bella rivincita verso chi, ovvero proprio tutti, li aveva bellamente ignorati in vita. Tutto quello che riuscì a guadagnarsi nell’anno della sua uscita, Spiderland (Touch And Go, 1991), secondo album e capolavoro del gruppo, fu un trafiletto sulle colonne di Rockerilla in una sottorubrica intitolata Underground Usa. Almeno dalle nostre parti, s’intende.
Davvero un po’ troppo poco per un album che, solo qualche anno dopo, sarebbe finito in tutte le isole deserte della generazione post-grunge, considerato anche che il primo lavoro della band, Tweez (Jennifer Hartman, 1989), penalizzato all’epoca della sua uscita da una distribuzione poco più che carbonara, sarebbe finito nelle orecchie dei più solo nel 1993, dopo Spiderland quindi, grazie alla ristampa su Touch And Go. Del resto, all’epoca dei fatti, si era tutti troppo impegnati ad inseguire un bimbo che stava per abboccare all’amo attirato da un’esca un po’ particolare, per potersi permettere distrazioni di questo tipo. Eppure, l’importanza storica del gruppo che raccolse il chitarrista Brian McMaham ed il batterista Britt Walford dalle ceneri degli Squirrel Bait, e li unì all’altra chitarra di David Pajo alternando al basso Ethan Buckler prima e Todd Brasher poi, fu davvero capitale.
Gli Slint raccolsero il testimone della generazione post hardcore per arrivare alla sua trasformazione ultima e definitiva. Quel suono, già minato da innumerevoli contaminazioni, venne destrutturato e fatto a pezzi fino a ridurlo al fantasma di se stesso, venne rallentato, ripulito, raffreddato, sospeso, dilatato fino a renderlo irriconoscibile, fino ad estirparne tutte le radici. Fino a rivoluzionarlo, a rifondarlo dal suo interno. Fino a dare un’altra possibilità al rock. Ecco perché quando si parla di post-rock –ma chiamatelo come volete perché è sicuramente meglio- non si può prescindere da un disco come Spiderland, per arrivare, e a ragione, ad attribuirgliene la paternità definitiva.
Le intuizioni di Tweez –prevalenza delle parti strumentali, assenza del cantato in forma tradizionale (ridotto, il più delle volte ad un semplice parlato), alternanza fra tessiture chitarristiche limpide e cristalline ed esplosioni di energia di chiara derivazione hardcore, ritmiche rallentate e sconnesse- vengono calibrate e messe a fuoco per assumere una forma definitiva già ben rappresentata dall’iniziale Breadcrumb Trail. Una partenza lenta, con un recitato mesto e sommesso e frasi di chitarra liquide e precise; quando il brano s’impenna la voce si fa urlo strozzato in gola, il ritmo si mantiene lento e catatonico mentre le chitarre scaricano energia senza perdere in pulizia e precisione. Nella successiva Nosferatu Man sale il ritmo ed aumenta la violenza delle esplosioni chitarristiche e della voce benché tutto rimanga sotto controllo, secondo un ordine di fondo che sembra ineludibile. Don, Aman fragile e sussurrata su uno scheletro di chitarra, sembra sempre in procinto di esplodere, ma la rabbia cova fino in fondo per liberarsi in una docile impennata chitarristica. Washer, dolce e ipnotica, libera trame di chitarra che non vanno mai sopra le righe ed una voce morbida, vellutata e gentile che per la prima ed unica volta si può definire canto. Sembra destinata ad un’esplosione di zuccheri, ma nel finale arriva anche quella delle chitarre che si stempera subito in più gentili trame. Nella successiva For Dinner… le parole vengono meno e restano solo le chitarre, placide come mai, mentre la chiusura affidata a Good Morning, Captain recupera gli abituali ingredienti con una base ritmica che brilla di luce propria e guadagna spazi da protagonista prima di venire doppiata dalle chitarre ed esplodere in un finale violento e liberatorio, in cui anche la voce molla i freni inibitori e diventa urlo famelico. Poi solo il silenzio, quello stesso silenzio che parrebbe dover calare per sempre sulla meteora degli Slint, già bruciati e destinati all’oblio. Sappiamo, per fortuna, che non è andata proprio così.
da LFTS n.92