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RAY WYLIE HUBBARD – Co-Starring

di Paolo Crazy Carnevale

3 giugno 2021

Ray Wylie Hubbard - Co-starring (1)

RAY WYLIE HUBBARD – Co-Starring (Big Machine Records 2020)

Grande ritorno, in forma più che smagliante, per uno degli outlaws texani delle origini: Ray Wylie Hubbard è sulla breccia da un sacco di tempo, anche se a livello discografico fino agli anni ottanta ha realmente sonnecchiato e solo dai novanta in poi i suoi dischi hanno realmente destato interesse. Ma questo conta poco, è la bontà delle sue uscite a fare la differenza, così come il suo inconfondibile stile e le sue canzoni che oltre ad avere sempre un gran fascino sono sempre dense, a livello testuale, di citazioni e riferimenti.

Il nuovo disco ha tutte le caratteristiche dei dischi figli dell’era covid-19, ossia di essere stati realizzati in luoghi diversi, pur di avere i musicisti nei solchi alla faccia dell’impossibilità di muoversi; ed è un disco che fin dal titolo ci fa capire quanto possa essere ricco di ospiti titolati, evidente segno anche della stima e del rispetto per Hubbard, che come si diceva è uno dei padri fondatori di uno stile e ne ha firmato, negli anni settanta, una delle canzoni simbolo, quella Up Agains The Wall Redneck Mother, resa celebre da Jerry Jeff Walker nel suo irrinunciabile Viva Terlingua!.

Co-Starring è un disco solidissimo, con dieci grandi canzoni, tutte nuove di trinca, salvo una, ripresa dal passato, che è comunque ben inserita nel contesto ed è comunque una delle più belle di sempre tra quelle scritte da Ray. Il sound è quello che il nostro è solito portare in giro negli ultimi anni, anche quando si esibisce dal vivo: ho avuto la fortuna di assistere ad un suo concerto in trio in Texas nel 2015 e, ospiti a parte, quello che esce dal disco è lo stesso cui ho assistito ad Austin.
L’inizio è subito alla grande, Ray sfodera in un sol brano, Bad Trick, un poker di collaboratori da svenimento: c’è Chris Robinson a duettare nel cantato, Ringo Starr alla batteria, Don Was al basso e alla chitarra nientemeno che Joe Walsh. Tripudio totale per un brano che sarebbe già buono anche senza le star coinvolte. Rock Gods è dedicata a Tom Petty, o quantomeno trae ispirazione dalla sua dipartita, arrangiamento minimale, con un bel lavoro di chitarra elettrica da parte di Aaron Lee Tasjan; per la successiva Fast Left Hand , bel testo e musica vibrante tutta giocata sul suono della slide, Ray si avvale invece di una band al completo come ospite, i Cadillac Three, in verità più interessanti in questa situazione che non nel loro recente disco.

Arriva a questo punto una delle perle del disco, Mississsippi John Hurt, dedicata all’omonimo bluesman e suonata quasi in solitudine con i soli contributi del figlio Lucas (spesso sul palco con lui) al dobro e di Pam Tillis che accompagna la voce di Ray Wylie con sapienza. Altra perla è il brano che chiude il lato A, Drink Till I See Double, in cui ci sono a duettare Paula Nelson e Elizabeth Cook, ma è fondamentale anche il lavoro di Jeff Plankenhorn alla pedal steel: i riferimenti qui sono cinematografici con citazioni di “Urban Cowboy” e “Il texano dagli occhi di ghiaccio”.

La seconda parte si apre sul riff sostenuto di R.O.C.K., un titolo che è tutto un programma: anche qui c’è un gruppo predefinito a crearne l’ossatura, Tyler Bryant & The Shakedown, il brano suona come una session spontanea, tanto che nel testo si parla di Bryant e soci, in realtà anche in questo caso i musicisti sono stati ripresi in differenti location, seppure magari in simultanea.

Steve Cropper e Dennis Hopper (forse solo per questioni di rima) sono citati nel testo della più rilassata Outlaw Blood che vede ospite la voce di Ashley McBride, mentre il bravo Plankenhorn qui si occupa di slide e mandolino, dando un tocco diverso al colore del sound. A conferma dell’ottimo abbinamento tra Ray Wylie, le voci femminili e il suono slide, in Rattlenake Shakin’ Woman sono poi coinvolte le sorelle Lovell, vale a dire le Larkin Poe, col prevedibile risultato di una grande performance. Come per il lato A del disco, anche per la seconda facciata, sono i due brani finali a strappare gli applausi più forti, Hummingbird vede sfilare l’ospite meno prevedibile, il fantastico Peter Rowan, che piazza la sua chitarra acustica e un po’ di voce nella canzone più tranquilla del disco, un gioiellino tutto sorretto sulle chitarre acustiche e sul contrabbasso, niente bottleneck, distorsori o dobros, solo un’atmosfera country gospel dal suono magico.

Il gran finale è affidato alla canzone più vecchia, un brano già apparso nel 1999 su Crusades of the Restless Knights: anche in questo caso l’atmosfera è più pacata, siamo in odore di Townes Van Zandt, guarda caso citato anche nel testo. Ronnie Dunn e Pam Tillis sono della partita coi cori e, unico strumento oltre all’acustica dell’autore, c’è il violoncello di Brian Standefer. Una chiusura bellissima per un disco che è sicuramente tra i più memorabile di questo notevole musicista.

Paolo Crazy Carnevale