Musica per vecchi boscaioli
di Marco Tagliabue
21 giugno 2012
Registrato interamente in presa diretta in quel di Sidney, lungo il misero arco di ore di un singolo rovente pomeriggio, The Axeman’s Jazz, opera prima di abbagliante bellezza degli australiani Beasts Of Bourbon, è uno di quei dischi attraverso i quali si tramanda l’essenza stessa della musica di cui, ancora oggi, qualcuno vorrebbe incolpare il demonio: quel legame che unisce indissolubilmente la fisicità di un suono, la sua percezione quasi tattile, all’elettricità che contagia l’intero corpo a partire da un piede che batte il ritmo; un vigore che continua a turbinare anche nel cervello, che riconcilia con la vita anche a un passo dal baratro alimentando una insaziabile sete di ricerca per addivenire a nuova linfa: il rock, in una parola, quella malattia che, anche in tempi di maturità vera o presunta, continua a resistere a qualsiasi antibiotico e a qualsiasi cura.
Diretta emanazione del blues sporco e malato di Cramps, Gun Club e Birthday Party, nipotini degeneri di Rolling Stones e Captain Beefheart, i Beasts Of Bourbon nascono un po’ per gioco nel 1983, una sorta di supergruppo ideato inizialmente come side project dai propri membri e assurto giocoforza a progetto principale solo qualche anno più tardi, nel 1988, con la pubblicazione dell’ottimo Sour Mash, dopo un esordio, questo, che si dimostra fin dall’inizio inequivocabile fondamenta della nascente babele dell’ aussie-rock.
Blues si è detto, e profondamente blues è l’anima che pervade il disco dal primo all’ultimo solco, un blues già perfettamente memore della lezione del punk, che trova negli sguaiati pub di periferia, dove l’alcool si misura a litri e il fumo si abbatte a colpi di machete, il terreno più fertile per il suo irrefrenabile contagio.
Molte le anime che attraversano il lavoro, uno solo il segno che le accomuna e le sospinge nella stessa direzione.
Si parte con Evil Ruby, ballata elettrica dal piglio vagamente stonesiano, e il ghiaccio è rotto dopo poche battute: con le temperature che iniziano a svilupparsi non sarebbe del resto pensabile altrimenti…; Love & Death è uno splendido blues lento e malato, retto da un giro di basso e dagli eccitanti gemiti di due chitarre, con Grave Yard Train proseguiamo nella stessa direzione, addentrandoci nel cuore della foresta, verso la sorgente del suono più (im)puro, mentre Psycho, già edita su singolo, è una ballata davvero trascinante ed emozionale di stampo quasi fifties.
Drop Out aumenta un po’ la tensione grazie ad un travolgente e sguaiato riff di chitarra, mentre in Save Me A Place esce allo scoperto un po’ di cattiveria insieme ad una voce sofferta come non mai; Lonesome Bones, sempre più ostaggio delle dodici battute, è ideale preludio a The Day Marty Robbins Died, fra i capolavori dell’album, ballata lenta, magica e solenne, introdotta e sostenuta da uno splendido giro di chitarra. A Ten Wheels For Jesus, infine, il compito di chiudere con ritmi più folli e convulsi, e una contagiosa chitarra voodoobilly, un album davvero travolgente ed indimenticabile.
Indimenticabile per chi, da lezioni come questa, ha tratto spirito ed energia per ridere di tutte le morti del rock decretate, con impressionante e regolare cadenza, dalla corrente o dal giornale trendy di turno; per chi, in preda a questi spasimi, si è fatto latore di un sogno, lo stesso fra i grattacieli di Sidney, le spiagge della California o le risaie della bassa Padana ed intorno ad esso ha plasmato la propria esistenza, riuscendo a resistere, nelle diverse situazioni, grazie ad un pizzico di follia nel metodo o, viceversa, ad un pizzico metodo nella follia. Per chi, insomma, ha iniziato allora ad ammalarsi e ringrazia il cielo di non essere ancora guarito.