Archivio di settembre 2025

PARALLELS – Exodus

di Paolo Baiotti

24 settembre 2025

parallels

PARALLELS
EXODUS
Autoprodotto 2024

“In un classico formato concept album, Exodus racconta la storia di una giovane coppia che affronta la guerra: ‘Se non ti sottometti, ti offrono la spada’. Decidono che lui lascerà il paese per primo, dato che lei aspetta il loro primogenito da un giorno all’altro. È un viaggio pericoloso, tra fuoco incrociato, cecchini e potenziali tradimenti. Lui deve attraversare il mare. Ma lo farà? E lei? Si riuniranno?”.
Così viene presentato nelle note di copertina Exodus, l’ambizioso debutto del trio svedese dei Parallels formato da Ulrik Arfurén (voce solista e basso), Torbiorn Carlsson (tastiere) e Anders Boriesson (chitarra e voce), che si possono considerare una formazione di neo-prog con venature metal. Il tema principale riguarda il flagello della guerra, che purtroppo i tempi recenti hanno mostrato sempre presente nella mente di troppe nazioni e di troppe persone. Ognuno può applicarlo all’area di conflitto che ritiene più vicina, anche se questo progetto è dedicata alla lotta ucraina, come si evince dal dialogo iniziale in quella lingua.
Dal punto di vista musicale i Parallels dimostrano di avere una notevole competenza strumentale e anche la scrittura e gli arrangiamenti, quasi interamente nelle mani di Carlsson, sono di buon livello pur avendo inevitabili riferimenti sia al prog degli anni Settanta (Camel, Genesis, Pink Floyd) che a quello degli anni ottanta (IQ, Twelfth Night). Prevalgono le parti melodiche con le tastiere e i synth in primo piano, oltre alla voce consistente e solida di Arfuren che in un paio di tracce è affiancato dalla cantante Maria Kirilov.
L’apertura di The Beginning è drammatica ed emozionante, con un testo commovente che accompagna una musica che a tratti ricorda i Camel e i Pink Floyd con una chitarra espressiva nell’assolo centrale seguita da una parte cantata più sforzata e sofferta dove le tastiere il comando. Segue The Escape che ha una prima parte che dà la sensazione di fuga con il synth e una chitarra heavy, una sezione più quieta cantata, un break strumentale con le tastiere avvolgenti e un finale accelerato che confluisce nella bluesata You’ve Got To Run, duetto vocale tra Arfuren e la Kirilov accompagnati dal piano, da una chitarra gilmouriana e dagli archi. Il crescendo di One More Road è seguito dalla potente e trascinante Fields Of Despair in cui una chitarra ruvida duetta con le tastiere in un contrasto che caratterizza il brano, esemplare per i continui cambi di ritmo e atmosfera, confluendo nella sofferta How Can This Even Be?, l’altro duetto con la Kirilov.
La seconda parte è aperta e chiusa da Not Alone Part 1-2: la prima è la traccia più lunga del disco in cui piano e tastiere avvolgono l’ascoltatore e che, dopo il cantato, accelera con il synth e la chitarra in dialogo serrato rallentando nuovamente con il ritorno della voce solista. Il prog-metal di Forgotten, la sofferta Darkness e la cadenzata Sea Of Death sottolineano i momenti più difficili della fuga, mentre in Say Hello (Solid Ground) viene tentata una via d’uscita oltre la linea del fronte alla ricerca della tanto agognata liberazione che sembra possibile nella chiusura di Not Alone part 2, portatrice di un messaggio di speranza sottolineato dalla solennità della musica.
Exodus è un disco che merita un ascolto accurato, specialmente da parte degli appassionati di prog classico.

Paolo Baiotti

GRAZIANO ROMANI – Looking Ahead

di Paolo Crazy Carnevale

22 settembre 2025

Romani_Looking-Ahead

GRAZIANO ROMANI – Looking Ahead (Route 61 Recordsvc 2025)

Non solo Springsteen. È la prima cosa che viene in mente ascoltando questo nuovo lavoro del rocker emiliano Graziano Romani. Non che avessimo bisogno di questo disco per scoprire che la musica di Romani va ben oltre. Ma è una cosa che è bene e giusto ribadire. Romani è stato l’anima e la voce dei Rockin’ Chairs, formazione di Reggio Emilia devota alla musica del boss: ricordo di averli sentiti nominare la prima volta alla fine del 1984 grazie ad una loro versione di Jungleland registrata proditoriamente dal vivo nella mia città (ma io stavo facendo il soldato altrove, allora) e finita in una compilation casalinga su nastro. Un paio d’anni dopo sono tornati a suonare dalle mie parti e il concerto non me lo sono perso. Poco dopo è arrivato il famoso primo LP su Ala Bianca/EMI. Da quei tempi eroici – per una band rock di quel genere in Italia non era certo facile avere l’opportunità di fare dischi – di acqua sotto i ponti ne è passata molta, allo sfaldamento del gruppo, Romani ha fatto seguire una carriera solista di riguardo, varia, ha persino preso parte a tributi a Springsteen, ha fatto dischi in omaggio agli eroi dei fumetti cari a lui e alla sua generazione, di cui ricordo con piacere quello a Tex Willer.

Nella musica, lui non ha mai smesso di crederci. E Looking Ahead ne è la riprova. Ascolto dopo ascolto il disco cresce, matura, conquista. Se non sapessimo chi è Graziano Romani e se non sapessimo che la Route 61 è una label italiana, potrebbe essere un disco d’Oltreoceano, il disco di un artista che la musica americana la conosce a menadito, sa scrivere brani come se fosse nato lì, anche meglio forse, e oltretutto lo fa riuscendo pure a dire qualcosa coi suoi testi. Ogni brano è come una cartolina e nel booklet è accompagnato dal relativo francobollo. Il disco trasuda suoni ben costruiti, la fisarmonica quasi zydeco dell’energica Middlejune che apre il disco parla chiaro, tra l’altro la suona Franco Borghi, qui anche ad uno strepitoso pianoforte, che stava con Graziano già ai tempi dei Rockin’Chair. Così come il mitico Max Marmiroli, che qui si occupa della sezione fiati e che come Borghi negli ultimi quindici anni è sempre rimasto a fianco del titolare. Singing About Nothing gira dalle parti di Southside Johnny, ottima la chitarra di Fellon Brown e ottimo il refrain di facile assimilazione; Lay Down These Arms, oltre a confermare il buono stato della vena del Graziano autore, sta ancora nel New Jersey di fine anni settanta, con Marmiroli che suona come se fosse da solo gli Asbury Jukes, è quindi la volta della soul ballad This Kind of Sparks, con solo del sax e gran sostegno della sezione ritmica formata da Lele Cavalli e Nik Bertolani. L’arrangiamento festoso di Bright Side Of The River ci riporta al soul celtico di Kevin Rowland e soci, Unafraid ricorda un po’ Ligabue, che è uno che viene dalla stessa scuola di Romani, con un testo in stile hobo che cita inevitabilmente Woody Guthrie, Borghi ci mette un bel solo di fisarmonica. Con Universal Law il suono si fa più impetuoso e robusto, l’organo tira cannonate e l’autore invita a tornare a fare l’amore – in contrapposizione con la guerra che sembra si stia facendo ovunque di questi tempi. Altro attacco in chiave Southside Johnny per In A Just World, con Marmiroli e Borghi che sono i protagonisti della struttura sonora, magnificamente sorretta da basso e batteria. Lo status elevato del disco prosegue con From This Moment On, Black Alley Beauty (bel giro di chitarra), Looking Ahead, forse la canzone che ricorda maggiormente l’ispiratore primordiale di Romani insieme alla conclusiva Last Juke Box On Earth, brano evocativo costruito sull’onda di ricordi davvero lontani.

Paolo Crazy Carnevale

MICHAEL WARD – Brighter Days

di Paolo Baiotti

21 settembre 2025

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MICHAEL WARD With Dogs And Fishes
BRIGHTER DAYS
Autoprodotto 2024

Nell’agosto del 2024, Michael Ward con la sua band Dogs & Fishes ha pubblicato il quinto album Brighter Days, con otto canzoni registrate agli Hyde Street Studios di Rancho Rivera in California di cui Michael è proprietario. L’album, che ha un significato politico espresso con forza nei testi, è influenzato dal blues, dal rock classico, dal soul di Memphis e soprattutto, dal suono della west coast. Il disco è stato masterizzato dall’esperto Howie Weinberg (Herbie Hancock, Beastie Boys, Jethro Tull, U2).
La band Dogs And Fishes, oltre a Michael (voce e chitarra), è formata da sei elementi che suonano insieme da un ventennio, vale a dire Prairie Prince (The Tubes, Tom Waits, John Fogerty) alla batteria, Chris Von Sneidern (Chuck Prophet) alla chitarra, Richard Howell (Etta James, Taj Mahal) al sax, Drew Zingg (Steely Dan) alla chitarra, Jeff Cleland (Hot Sauce) al basso e il boliviano Fernando De Sanjines (Samba Do Coracao) alla batteria e percussioni.
Tra i brani spicca il singolo Big Bite, un funky-rock chitarristico in cui è curiosamente campionato un frammento della dichiarazione di guerra di Mussolini assimilato al modello trumpiano di visione politica. Come ha dichiarato Ward “L’attuale modello trumpiano è schietto e audace nel porre le sue intenzioni fasciste come centrali nella sua attuale piattaforma, così com’è. Questa melodia affronta i meccanismi di attrazione di questo pericoloso stato d’animo.” Da notare anche una cover accelerata di Highway 61 in cui la voce mi ha ricordato Ian Gillan dei Deep Purple, con un notevole apporto di tastiere, chitarre e fiati unita alla polemica TV Preacher, atto d’accusa contro i predicatori, la mossa Dress Up Day in cui emerge il sax di Howell nella jam finale e la fluida A Walk In The Park registrata dal vivo, attraversata da un sax nuovamente in primo piano.

Paolo Baiotti

BROCK DAVIS – Everyday Miracle

di Paolo Baiotti

21 settembre 2025

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BROCK DAVIS
EVERYDAY MIRACLE
Raintown Records 2024

Cresciuto in una cittadina vicina a Vancouver, ma da tempo residente a Santa Cruz in California, Brock è un cantautore che ama mischiare un fingerstyle acustico con il suono elettrico della Telecaster byrdsiana e l’organo B3, tra rock, country e folk.
È un veterano dei palchi avendo lavorato in bar e club e inciso un paio di album, A Song Waiting To Be Sung e il più recente Everyday Miracle, che raccoglie la prima parte delle canzoni registrate da Zach Allen (Keb’ Mo’) nel Backstage Studio di Nashville con alcuni session-men di lusso quali sono giustamente considerati Rob McNelly (Buddy Guy, Lady Antebellum, Kenny Chesney) e Justin Ostrander (Luke Bryan, Cody Johnson) alla chitarra, Russ Pahl (Robert Plant, Vince Gill, Carrie Underwood) alla pedal steel, Michael Rojas (Black Keys, Dolly Parton, Stevie Nicks) alle tastiere, Duncan Mullins (Crystal Gayle, Richard Marx) al basso e Marcus Finnie (Keb’ Mo’, Taj Mahal, Lady Antebellum) alla batteria.
Everyday Miracle è un disco melodico, riflessivo, elegante, a tratti emozionale pur essendo musicalmente piuttosto uniforme, con uno studiato utilizzo dei cori d’ispirazione gospel in tracce come Rain Falling On The Water, la riflessiva Give Forgiveness ed Everyday Miracle. Tra gli episodi country-rock più ritmati che vivacizzano l’ascolto citerei You’d Think I Know By Now e il singolo Keep On che ha ricevuto notevoli attenzioni. La voce di Brock risalta nella ballata pop I’ll Always Be Your Dad un po’ zuccherosa, nell’elegante The Warrior, nella love song Angela (Please Say Yes) e nella dolente September Rain, mentre la chiusura di My Promise To You richiama nel testo le promesse di nozze di Brock alla moglie.
Il musicista, confermando il suo romanticismo, ha commentato così questo brano: “mia moglie ama i grandi gesti romantici; quindi, sapevo che volevo chiederle di sposarmi con una canzone. Ma non sono riuscito a superare la prima riga che ho iniziato a piangere e poi anche lei si è messa a piangere. Ma ha detto di sì”.

Paolo Baiotti

LEAF RAPIDS – Velvet Paintings

di Paolo Baiotti

17 settembre 2025

LEAF RAPIDS
VELVET PAINTINGS
Forty Below 2025
Mile33 2024

I coniugi Keri e Devin Latimer sono il fulcro dei Leaf Rapids, formazione che prende il nome dalla cittadina situata nel nord-ovest del Manitoba in Canada dove risiedono, una zona isolata in un territorio un tempo abitato da tribù indiane. Dopo avere militato nei primi anni del nuovo millennio nel quartetto di alternative-country Nathan che ha inciso tre album, hanno proseguito da soli esordendo nel 2015 con Lucky Stars, seguito nel 2019 da Citizen Alien, un disco particolare che traeva ispirazione da vicende famigliari della coppia (Keri è di origine giapponese).
Dopo una pausa coincisa con il periodo della pandemia è il momento di Velvet Paintings, un album che vuole avere un suono roots-country e una visione più ampia sul mondo e sugli interpreti del momento attuale. Keri (autrice e cantante) e Devin (basso) sono accompagnati da Joanna Miller (batteria e voce) e Chris Dunn (chitarra), con l’aggiunta del contributo di Bill Western (pedal steel), Geoff Hilhorst (tastiere), Natanielle Felicitas (violoncello) e John Paul Peters (violino) che ha mixato e coprodotto il disco con Keri nello stuudio Private Ear di Winnipeg.
La title track si offre all’ascolto in modo quieto e melodico con la voce sottile della cantante in primo piano; Starling To a Starling accelera il ritmo senza scossoni, con un’influenza country data dalla pedal steel, che continua in Fast Romantic, aperta da arpeggi non dissimili da Jackson dei coniugi Cash. Si prosegue con la romantica ballata Silver Fillings e con il delicato folk-pop Night Shift in cui Keri lascia il ruolo di voce solista alla batterista Joanna Miller, autrice della canzone. L’eterea Paramjit’s Sonnet ammorbidita dagli archi conferma la preferenza per le melodie avvolgenti, ribadita dalla carezzevole In The Woods, mentre il ritmo si rialza un pochino nel country chitarristico di Trepidatious Celebrations in cui gli strumenti si intrecciano con sapienza, portandoci alla chiusura di Insomniac Show.
Prodotto con il prezioso aiuto finanziario della “Manitoba Film & Music”, Velvet Paintings è l’ennesima riprova della vitalità della scena roots canadese.

Paolo Baiotti

NORTH MISSISSIPPI ALLSTARS – Still Shakin’

di Paolo Baiotti

13 settembre 2025

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NORTH MISSISSIPPI ALLSTARS
STILL SHAKIN’
New West 2025

Nel presentare il nuovo album Luther Dickinson ha dichiarato: “Still Shakin’ è una celebrazione del nostro primo album che ci ha cambiato la vita, Shake Hands with Shorty, pubblicato 25 anni fa e una lettera d’amore e di apprezzamento a coloro che ci hanno supportato e ci hanno permesso di continuare a suonare in tutti questi anni. Portare in tour questo ciclo di album fino al 2026 segnerà trent’anni da quando abbiamo fondato i North Mississippi Allstars e non abbiamo resistito a commemorare entrambi gli anniversari. Invece di concentrarci sul vecchio materiale abbiamo deciso di registrare nuova musica nello spirito del nostro debutto”.
Formati nel ’96 dai fratelli Luther e Cody come un collettivo di musicisti della zona nord del Mississippi, ispirati dal padre Jim Dickinson (musicista e produttore) e dagli storici bluesman dell’Hill Country Blues (RL Burnside, Junior Kimbrough e Fred McDowell), hanno supportato nel loro primo tour americano RL Burnside, evolvendo gradualmente il loro suono che, partendo dal blues locale, ha inserito elementi meno tradizionali e il gusto per l’improvvisazione psichedelica con influenze punk e stoner. Gli Allstars hanno avuto numerosi musicisti nella loro line-up, da Cedric Burnside a Chris Chew, da Oteil Burbridge e Garry Burnside e hanno collaborato a numerosi dischi di altri, specialmente Luther che ha anche suonato per un certo periodo con i Black Crowes e Phil & Friends.
L’esordio è stato registrato nello studio di famiglia, lo Zebra Ranch di Independence come molti dischi successivi e gran parte di Still Shakin’. L’attuale line-up della band comprende Rayfield Holloman (pedal steel, basso e basso synth) e Joey Williams (voce, chitarra e basso), due musicisti presentati a Luther da Robert Randolph, ma partecipano all’album altri amici e colleghi.
A tre anni dal valido Set Sail, Still’Shakin’ definito da Luther un disco di Modern Mississippi Music mischia il suono delle origini con influenze più recenti risultando ancora una volta interessante e convincente. La versione accelerata e funkeggiante di Preachin’ Blues è un esempio di questo mix di tradizione e modernità, a differenza di Stay All Night (Junior Kimbrough) che vira verso la tradizione con l’intervento della chitarra e voce di Robert Kimbrough, figlio di Junior e dell’Hammond di JoJo Hermann (Widespread Panic). Le voci di Sharisse e Shontelle Norman accompagnano Luther nel mid-tempo My Mind Is Ramblin’ (Junior Kimbrough), seguito da Pray For Peace, brano che intitolava l’album del 2017, ripreso in una versione venata di gospel con le voci di Cody e Joey e da K.C. Jones (Furry Lewis) in cui il basso è affidato a Graheme Lesh, figlio del bassista dei Grateful Dead al quale è dedicato il disco.
Se l’ondeggiante Still Shakin’ ha un groove ballabile con dei suoni più moderni, anche Poor Boy (R.L. Burnside) viene rivista con Rayfield al synth bass e Duwayne Burnside alla chitarra solista dove si alterna con la slide di Luther nella jam strumentale, mentre il tradizionale Don’t Let The Devil Ride, con Joey Williams voce solista, ha un delizioso andamento insinuante e brillanti break strumentali. Nel finale non poteva mancare un brano dedicato al padre Jim, il melodico (e atipico) strumentale Monomyth con Luther al piano e Kashiah Hunter alla steel guitar.

Paolo Baiotti

CHARLIE MUSSELWHITE – Look Out Highway

di Paolo Baiotti

10 settembre 2025

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CHARLIE MUSSELWHITE
LOOK OUT HIGHWAY
Forty Below 2025

Charlie è uno dei “grandi vecchi” del blues tuttora in attività sia in studio che dal vivo. E non sbaglia un colpo! Nato in Mississippi, cresciuto a Memphis, ha vissuto per molti anni a Chicago e poi a San Francisco, ma più recentemente è tornato a casa trasferendosi a Clarksdale. Dopo il disco con Ben Harper (No Mercy In This Land, Anti 2018), quello con Elvin Bishop (100 Years Of Blues, Alligator 2020) e l’eccellente Mississippi Son (Alligator 2022), ha firmato per la Forty Below che recentemente ha pubblicato Look Out Highway registrato ai Greaseland Studios del chitarrista norvegese Kid Andersen (Rick Estrin & The Nightcats, Elvin Bishop) che ha prodotto il disco con Gary Vincent e Henrietta, moglie di Charlie. Vincitore di numerosi Grammys e Blues Awards con quasi 60 anni di carriera iniziata nel ’66 con l’album Stand Back! per la Vanguard il grande armonicista, chitarrista e cantante ha ancora voglia di dimostrare la sua autenticità, la voce graffiante e robusta e l’indubbia capacità di armonicista con un timbro riconoscibile che gli hanno consentito di collaborare con artisti di ogni epoca, da Tom Waits a Cindy Lauper, da Bonnie Raitt ai Blind Boys Of Alabama.
In questo disco in cui i brani sono in qualche modo legati dal tema del viaggio e della strada, Charlie è accompagnato dalla sua band formata da Matt Stubbs alla chitarra, Randy Bermudes al basso e June Core alla batteria con Andersen, che più volte ha suonato con lui, alla chitarra e tastiere. La title track posta in apertura ha un suono più duro del solito e un’armonica abrasiva, mentre la successiva Sad Eyes è più lenta e melodica anche negli interventi dell’armonica, mettendo in mostra le doti del chitarrista Matt Stubbs. Dal Chicago blues di Storm Warning all’incisivo shuffle di Baby Won’t You Please Help Me, dalla saltellante Hip Shakin’ Mama al blues mid-tempo Highway 61 con le tastiere in primo piano il disco scorre veloce senza momenti di stanca. Charlie dimostra di avere voglia di sorprendere in Ghosts In Memphis dove duetta con il rapper Al Kapone e nel rock-blues Ready For Times To Get Better (incisa nel ’76 da Crystal Gayle) dove interviene la cantante Edna Lockett, tornando sul suo terreno preferito nel magistrale slow strumentale Blue Lounge in cui suona la slide, chiudendo con il flessuoso blues di Open Road un altro album pienamente riuscito.

Paolo Baiotti

BONNY JACK – Somewhere, Nowhere

di Donata Ricci

9 settembre 2025

BONNY-JACK-Somewhere-Nowhere

BONNY JACK
Somewhere, Nowhere
Autoprodotto / AZ Press – 2025

Chi mastica di fotografia conosce la differenza tra il formato raw (ossia grezzo) ed il lezioso jpg, risultato di elaborazioni in fase di post-produzione. Ebbene, la terza prova discografica di Bonny Jack, dall’interessante titolo Somewhere, Nowhere, è assimilabile a un fotogramma sonoro in formato raw, che sappiamo essere il migliore in quanto privo di edulcorazioni. Le undici tracce del disco arrivano all’ascoltatore dirette, nude, scevre di artifizi che possano alterarne l’immediatezza. Ed è esattamente ciò che serve per conservare ogni granello di polvere depositatasi sui camperos e per disegnare quelle atmosfere dark-western che Bonny Jack riesce a miscelare con un blues primitivo e con l’irruenza del combat folk più genuino. Il ricorso alla lingua inglese risulta dunque appropriato, perché altrimenti come lo racconti il deserto geografico e interiore che ti brucia dentro? Congrui anche gli arrangiamenti, affidati all’incisiva fisarmonica di Angelica Foschi, all’armonica di Ren Vas Terul, al violino segnante di Brian D., alla slide nonché chitarre elettriche e armonica di Guido Jandelli, alle percussioni di Andrea Vettor e infine alla voce di Alia; oltre naturalmente al banjo e all’imprescindibile chitarra di Bonny Jack, il quale qui lascia a casa l’elettrica optando per un’acustica arrembante, perché resta inteso che il suo formato preferito è quello one man band, supportato da kazoo, tamburi a pedale e sonagli a cavigliera. Eppure non disdegna una coralità quasi tribale, come quella che si apprezza nel canto corale di Wake up. Classe 1984, al secolo Matteo Senese, Bonny viene attratto precocemente dalla chitarra, milita in svariate band nostrane e poi si trasferisce a Seattle, dove respira grunge a pieni polmoni prima di rientrare in Italia con un bagaglio musicale ormai maturo. La pubblicazione di Somewhere, Nowhere è preceduta dal singolo Carnival valley, per chi scrive il brano migliore della raccolta: il giro armonico mi rimanda immediatamente a Good shepherd e il suono sembra proprio quello dell’aeroplano Jefferson periodo Volunteers. Un’influenza inattesa e decisamente gradevole. Poi si vira con naturalezza e senza stridore alcuno alle sonorità mariachi di Mexican standoff, dove la tromba di Tyler R. regala l’attesa dose di Messico. Degna di menzione anche l’affascinante Post apocalypse song, una sorta di native song da cantare sommessamente e con cuore ispirato davanti ad un tepee evocando l’Erdgeist, lo spirito della Terra. Ulteriore conferma che questo disco è in definitiva il racconto di un viaggio spirituale in bilico tra giorno e notte, tra arsura e sorgente, tra morte e vita. In altre parole tra opposti, come sembra avvalorare il disegno interno alla confezione di cartoncino grezzo (anch’esso decisamente raw) che mostra un volto tagliato in diagonale, per metà teschio e per metà truccato a festa.

Donata Ricci