THE DREAM SYNDICATE – Ultraviolet Battle Hymns And True Confessions
The Dream Syndicate – Ultraviolet Battle Hymns And True Confessions (Fire Records 2022)
Capitolo ottavo, in studio, per la band capitanata da Steve Wynn, ma in verità la numerazione è contorta, ci sono LP e ci sono EP, ci sono poi i live, qualcuno considerato EP qualcuno LP a tutti gli effetti, ma dal vivo.
Di fatto questo Ultraviolet Battle Hymns And True Confessions è il quarto disco da quando Wynn ha deciso di rispolverare la storica denominazione degli esordi losangeleni quando oltre che leader del gruppo era anche il proprietario della piccola label Down There; questo quarto è per chi scrive migliore del nuovo corso. È il primo disco della rinascita a non uscire per la Anti, una label che personalmente trovo antipatica, forse per questo il disco mi piace più dei suoi predecessori in cui la direzione musicale era abbastanza ondivaga, il predecessore di questo LP ad esempio, The Universe Inside era stranissimo, non un brutto disco, anzi, molto particolare, ma non c’entrava nulla con i Dream Syndicate, gruppo per tradizione guitar oriented: quel disco poteva essere piuttosto un lavoro del solo Chris Cacavas featuring Dream Syndicate.
Le chitarre tornano invece prepotentemente in questo nuovo lavoro su Fire Records, anche se il lavoro di Cacavas è quantomai presente e in maniera assai differente da quello che faceva negli anni ottanta con i Green On Red, il segreto della riuscita di Ultraviolet Battle Hymns And True Confessions è che c’è più la dimensione canzone, c’è più spazio per Wynn, mentre Walton e Duck sono ormai una sezione ritmica rodatissima e Jason Victor intreccia la sei corde con l’effettistica del tastierista in maniera esemplare. Per chi scrive il disco da avere del gruppo è The Medicine Show, ma questo pare il migliore in assoluto tra tutti quelli venuti dopo. Non fatevi ingannare dallo sticker appicciato sul cellophane, riferimenti a Krautrock e Eno sono fuorvianti, qui c’è tutta la natura dei primigeni Dream Syndicate, senza la chitarra ululante e distintiva del rimpianto Prekoda, ma c’è lo spirito giusto ed è ciò che conta.
Where I’ll Stand è un modo ottimo per cominciare un disco, ma il brano più pregnante è quello che segue, Damian, composizione molto sugosa in cui il gruppo si esprime al meglio. Sempre sul lato A c’è Beyond Control che prelude alla breve e psichedelicissima The Chronicles Of You, con la voce quasi recitante di Wynn. A chiudere la prima parte la sognante Hard To Say Goodbye con echi dei Byrds di Notoriuos Byrd Brothers e suoni ripresi anni dopo da gruppi come i Beachwood Sparks e i Deep Dark Woods, ma nei Dream Syndicate manca ovviamente tutta la parte country oriented che caratterizzava il sound di quelle band: nel brano però dovrebbe esserci la pedal steel spaziale (suonata in puro stile Garcia) di Stephen McCarthy, amico di vecchia data di Wynn e Cacavas e chitarrista dei Long Ryders. Per la verità le note di copertina ci dicono che McCarthy è presente nel disco come backing vocalist, ma qui la pedal steel c’è ed è difficile pensare non sia lui a suonarla. Bene poi Everytime You Come Around e meglio ancora l’abrasiva Tryng to Get Over, con bel giro di basso di Walton e la chitarra di Jason Victor che pare uscire da Days Of Wine And Roses, l’esordio indipendente in formato LP.
Convince pure Lesson Number One, sempre molto incentrata sulle chitarre, così come nella spettrale My Lazy Mind in cui le sei corde hanno suggestioni western, c’è Marcus Tenney ai fiati a ricordare le desertiche atmosfere dei Calexico ma anche certe cose del Dan Stuart più recente, McCarthy è probabilmente alle seconde voci, molto sepolte dietro il muro del suono rafforzato da Cacavas; chiude il lavoro l’adrenalinica Straight Lines, puro garage sound con l’organo di Chris che qui sì suona come sugli esordi dei Green On Red, Wynn canta come fosse un ragazzino un garage e il disco si chiude in gloria sull’ululare della sei corde di Victor.
Paolo Crazy Carnevale
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