DAVID OLNEY & ANANA KAYE – Whispers And Sights

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David Olney & Anana Kaye – Whispers And Sights (Appaloosa/Schoolkids 2021)

“Pensa ai giorni d’estate e al modo in cui ti facevo ridere, è sempre stato il mio addio preferito” canta David Olney nel brano d’apertura di questo lavoro postumo realizzato con la cantante Anana Kaye. Lui invece se n’è andato in un giorno di gennaio dello scorso anno, sul palco dove stava esibendosi, in Florida dove, se non altro, è sempre estate.

Questo disco può quindi essere considerato come una sorta di testamento spirituale involontario, anche se a ben vedere è più un concept dalle atmosfere tenebrose, reso forse più lugubre dal fatto che un autore è morto prima che vedesse la luce, in particolar modo quando è la voce di Olney a guidare le danze, una voce divenuta con gli anni greve, quasi un incrocio tra quella di Eric Andersen e quella di Nick Cave, senza però riuscire a raggiungerne i toni più profondi.

Le note di copertina, immancabili nei dischi Appaloosa, ci raccontano che lo spunto parte da un luogo dei sogni non meglio identificato, probabilmente non negli Stati Uniti, dove in un tempo databile a circa cent’anni fa o anche più i tre autori (oltre ai titolari c’è il marito della Kaye, Irakli Gabriel, che compone, arrangia e suona le chitarre) si trovano in un locale a raccontare storie e a raccontarsi.

In musica.

Il disco ha alti e bassi, non è un capolavoro, la voce di Olney spesso fa cilecca, in particolare proprio nel brano d’apertura, My Favorite Goodbye, il che non è un bel biglietto da visita, nonostante il brano non sia brutto. Con ogni probabilità Olney se n’è andato prima di poterne fare una take migliore, tutto è possibile, ma ripeto, le stecche ci sono e un disco che comincia stonato non parte certo bene.

Quando canta la Kaye le cose cambiano, e anche quando sono in due a sostenere le parti, perché la voce di lei aiuta molto a non prestare attenzione alle debolezze di quella di lui.

Il genere è un folk moderno in bilico tra alternative country e le produzioni nashvilliane di Neilson Hubbard (che però non ha nulla a che vedere con questa pubblicazione) che sembrano piacere molto ultimamente, ma che francamente, a lungo andare, trovo ripetitive e con pochi brividi.

I brani cantati dalla Kaye (che si occupa anche delle tastiere e del piano), sono quelli più entusiasmanti, in particolare Last Days Of Rome, particolarmente apocalittica e aggressiva, o la title track dall’atmosfera più rilassata, molto melodica, una bella canzone d’amore e tragedia, o ancora la quasi profetica Thank You Note (se prendiamo per buono il fatto che tutto il disco sia stato concepito prima del marzo 2020, o comunque prima della morte di Olney) in cui la protagonista è sopravvissuta addirittura ad un’epidemia di cinquecento anni prima. In The World We Use To Know, Olney ci regala una delle migliori prestazioni vocali del disco, in supporto ad una base sonora molto dark, con tanto di archi e con la voce della Kaye che gli sussurra in sottofondo.

Il disco tutto sommato è suggestivo, ma all’ascolto resta evidente che c’è qualcosa di storto, come se l’assenza di Olney in diverse tracce fosse dovuta al fatto che non tutto doveva essere com’è finito per essere.

Una menzione particolare per la lunga canzone conclusiva, The Great Manzini, piena di quelle suggestioni che riconducono al luogo dei sogni menzionato nelle note di copertina, questo paese immaginario a metà via tra atmosfere belle époque e stile “vecchia America”, con la storia di un numero di magia in cui il grande Manzini del titolo riesce a far sparire una colomba senza però riuscire a farla ricomparire. Un po’ come la morte improvvisa ha fatto sparire Olney dal disco in maniera definitiva.

Paolo Crazy Carnevale

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