COCO MONTOYA – Coming In Hot

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Coco Montoya – Coming In Hot (Alligator/IRD 2019)

Curiosa la parabola musicale di questo chitarrista californiano ancorato alle sonorità del blues di Chicago: da batterista nella band di Albert Collins si è ritrovato alla corte di John Mayall, stavolta alla sei corde però, i cui rudimenti e lo stile gli erano stati impartiti da Collins.

Da lì al passaggio in proprio il passo è stato automatico: Coco (nato Henry) ha ormai all’attivo una quindicina di dischi registrati da metà anni novanta in poi.

Questo ultimo lavoro, pubblicato dalla sempre benemerita Alligator, si colloca a mezza via tra le produzioni dell’etichetta blues per eccellenza, che talvolta tocca punte eccelse con i dischi di artisti ineccepibili e tal altra invece, pur mantenendo uno standard qualitativo che non scade mai, pubblica dischi più risaputi e nella norma.

Il disco di Montoya, dicevamo, sta nel mezzo. Grande classe e gran suono, scelta intelligente dei partner e della musica, visto che il titolare firma solo la title track: innanzitutto il lavoro di chitarra è davvero monumentale, Montoya è un fuoriclasse, anche con la voce se la cava bene, ma come chitarrista è su un altro pianeta. Poi, scorrendo le note di copertina balza subito all’occhio il nome di Mike Finnigan che dissemina il disco dei suoni pregnanti delle sue tastiere, creando i tappeti su cui Coco può dipanare gli interventi della sua sei corde elettrica. Finnigan, per intenderci, ha suonato nientemeno che su Electric Ladyland di Hendrix ed ha fatto parte della California Blues Band di Stephen Stills, della CSNY Band del 2000, di CSN, della L.A. Blues Alliance e via dicendo, oltre ad aver inciso gustosi dischi a proprio nome negli anni settanta. Lights Are On But Nobody Home è ripresa dal maestro Collins, introdotta da un assolo di chitarra spettacolare, il cantato è quasi solo un pretesto, i quasi sette minuti di questo brano sono un trionfo del blues lento e cadenzato dominato dalla chitarra solista di Montoya. La voce è virata al soul, soprattutto quando, come in Stop Runnin’ Away From My Love, ci sono Kudisan Kai e Maxan Lewis a fare i cori. La sezione ritmica sostiene bene tutto, tra l’altro il bassista è nientemeno che Bob Glaub, uno mica da ridere, e alla batteria c’è il producer Tony Braunagel, veterano del genere e di casa nei dischi dell’Alligator. Stone Surivor di nuovo con i cori, ha lancinanti urla della sei corde e vede Finnigan al piano anziché all’organo, inflettendo al brano echi a mezza via tra honky tonk e soul. E soul totale è What Am I, ballad sudista firmata da Johnny Neele e Warren Haynes in cui risuonano tutte le caratteristiche del genere. Più risaputo il boogie blues di Ain’t It A Good Thing, ripreso da Bobby Bland, con ospite la voce di Shaun Murphy. I Wanna Wouldn’t Be You, non è proprio blues, è piacevole, ben suonata – e non c’erano dubbi – c’è tutto, dai cori al tappeto d’organo, ma sembra qualcosa di diverso. Più in linea la successiva Trouble e la cadenzata Witness Protection con sostanzioso lavoro di Finnigan sia al piano che all’organo; in conclusione la chicagoana Water To Wine solido esercizio stilistico in cui Montoya gioca facile.

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