Rock & Pop, le recensioni di LFTS/18
PIEDMONT BROTHERS BAND – Piedmont Brothers Band III (2012)
Per il terzo disco, la band virtuale (nel senso che i due leader lavorano a distanza con un oceano di mezzo) del pedemontano lombardo Marco Zanzi e del pedemontano “caroliniano” (nel senso di North Carolina) Ron Martin, dispiega, oltre alla consueta miscela collaudata di brani originali e di cover tratte dai repertori dei loro beniamini, una serie di ospiti i cui soli nomi basterebbero a far tremare i muri. La passione è sicuramente tanta, Zanzi e Martin lo avevano già dimostrato in passato, soprattutto col secondo superlativo disco; di questo terzo capitolo, intitolato semplicemente col nome del gruppo (un omaggio ai Flying Burrito Brothers che avevano scelto per il proprio terzo sforzo il nome della band?), a scanso di equivoci dirò subito che è buono, ma dato il dispiego di forze mi aspettavo qualcosa di più, o di diverso.
In primo luogo i suoni: nel secondo disco erano splendidi, nel nuovo prodotto qualcosa suona male, e dirò subito cosa. In ben quattro brani alla batteria c’è ospite Pat Shanahan (New Riders di fine anni settanta e Rick Nelson Band), ma la batteria suona davvero male, e sembrerebbe un problema di missaggio o registrazione, un peccato davvero. Per contro in parte dei brani in cui c’è Shanahan è presente la chitarra di Jock Bartley (Firefall e Fallen Angels) e, soprattutto nell’iniziale Full Circle risolleva di molto le sorti del brano. Ascoltato più volte il disco sembra dare il meglio nelle canzoni originali, in cui fratelli pedemontani possono liberarsi delle briglie spesso scomode del fare i conti con brani forse troppo noti. Dalla penna di Ron Martin provengono I Been Dreamin’ Of You e Santa Fè Rosie, impreziosite dall’apporto vocale (e nella seconda anche compositivo) di Rick Roberts, mica uno qualunque! Con Zanzi, Carter firma invece la piacevole Haunting From The Past e My Cherie, dall’andamento vagamente cajun. Avalon promette bene, ma l’arrangiamento con i fiati stona e il sax di Ausonio Calò pare fuori posto rispetto al contesto country rock del resto del disco, così come fuori posto è la conclusiva suite che pesca a piene mani nel folklore anglo-scoto-irlandese, una suite notevole e ricercata, suonata benissimo e impeccabile, ma, a mio parere poco collegabile al resto del prodotto. Meglio Lord e The Higway Of My Soul (con un grande interplay tra elettrica e piano) composizioni firmate entrambe da Marco Zanzi. Impeccabile anche la classica The Christian Life, che conta sulle voci di Richie Furay (!) e Herb Pedersen(doppio !!), proposta secondo l’arrangiamento byrdsiano del 1968.
Un disco bello in definitiva, con qualche ombra qua e là, non ultima il fatto di dover fare i conti con un predecessore come Lights Of Your Party.
Paolo Crazy Carnevale
TOHPATI BERTIGA – Riot (Moonjune 2012)
Tenere l’orecchio sempre teso a quanto si produce nel resto del globo, una caratteristica che Leonardo Pavkovic della Moonjune Records tiene sempre bene a mente, è il credo che sta dietro al nuovo disco del chitarrista indonesiano Tohpati, già responsabile per la stessa casa discografica di un disco di gruppo uscito un paio d’anni fa.
Stavolta il cd è accreditato al trio Tohpati Bertiga, formazione jazz rock basata essenzialmente su chitarra, basso e batteria e realizzata quasi live in studio nel corso dello scorso autunno registrando dieci tracce in un piccolo studio di Jakarta in un’atmosfera confortevole e naturale in cui i musicisti hanno suonato divertendosi.
I brani, tutti strumentali sono chiaramente dominati dalla chitarra elettrica del leader, si segnalano particolarmente la title track, la rilassata Middle East, Rock Camp e Lost In Space. Meno la rumoristica Disco Robot.
Paolo Crazy Carnevale
SH.TG.N – Sh.Tg.N (Moonjune Records 2012)
Difficile scoprire qualcosa su questa formazione belga, originaria dalla bella cittadina di Gent. Titolari di questo disco, omonimo del gruppo, si distaccano abbastanza dai prodotti distribuiti dalla coraggiosa label della Big Apple: nessuna reminiscenza jazz rock infatti, né rock strumentale come quello prodotto dal chitarrista Dennis Rea (uno dei più prolifici artisti della Moonjune), né tantomeno pirotecniche escursioni vocali alla Boris Savoldelli. Sh.Tg.N viaggiano su frequenze più metallare, nel senso più stretto del termine. Il disco, che si annuncia con un’originale ma macabra copertina dai richiami medieval-rinascimentali, parte infatti con una sorta di rock industriale dominato dalla chitarra di Yannick De Pauw e poi via via si apre ad altre soluzioni sonore, per lo più partorite dalla mente del tastierista Antoine Guenet e dal cantante (leggermente in odor di Robert Plant) Fulco Otterwanger. E, a dare un tocco di originalità e follia alla strumentazione di questo gruppo, non passa inosservato l’uso del vibrafono! La denominazione che questi musicisti danno di sé stessi è l’unica cosa arguibile dal loro impenetrabile sito web: Heavy Metal Contemporaneo Psicotico e Pomposo, senza dubbio una definizione che non lascia spazio a fraintendimenti. Ma per gli amanti del genere il risultato può essere gradevole e per i curiosi come il sottoscritto, quantomeno sorprendente.
Liriche cantate in inglese, francese, spagnolo e naturalmente in fiammingo. Sarà perché dopo un po’ ci si fa l’orecchio, ma il disco sembra dare il meglio nella seconda parte. Qualche titolo? J33, Camera Obscura, Esta Mierda No Es Democracia e A Glimpse Into Eternity.
Paolo Crazy Carnevale
THE OUTLAWS – It’s About Pride (Outlaws Music 2012)
Una delle più gloriose formazioni di rock sudista, formatasi a Tampa nel ‘72, conosciuti come la Guitar Army per le tre chitarre di Hughie Thomasson, Henry Paul e Billy Jones, gli Outlaws hanno avuto un periodo iniziale di grande successo tra il ‘75 ed il ‘77 alle spalle delle tre formazioni che hanno creato il southern rock (Allman Brothers, Lynyrd Skynyrd e Marshall Tucker Band) e una lenta decadenza con l’abbandono di Henry Paul e vari cambi di formazione. Thomasson ha cercato di mantenere in vita la band, poi è entrato negli Skynyrd, ma qualche anno fa ci ha riprovato contattando Henry Paul. Sembrava fatta, il gruppo era tornato a suonare dal vivo e stava preparando un disco, poi la morte improvvisa di Hughie nel 2007 ha bloccato i progetti…ma Paul ha voluto proseguire con il batterista della formazione originale Monte Yoho e con l’aggiunta degli esperti Billy Crain e Chris Anderson (chitarra), Randy Threet (basso) e Dave Robbins (tastiere), pubblicando prima un album di demos ed ora questo It’s About Pride che riprende gran parte delle tracce dei demos. Lasciando perdere le solite dichiarazioni di rito è chiaro che il marchio Outlaws viene riproposto perchè ha ancora una sua validità ed un numero discreto di appassionati che ripongono fiducia nella band. Gli Outlaws attuali sono la band di Henry Paul, che compone e canta sette brani su udici, coadiuvato da Crain e in un brano da Anderson. La componente country è centrale ed è quella legata alla figura di Henry ed alla sua voce melodica. Dopo gli Outlaws il chitarrista ha creato la Henry Paul Band e poi è stato tra i fondatori dei Blackhawk, gruppo di successo in ambito country venato di qualche spruzzatina di rock sudista. Dai Blackhawk si è portato Dave Robbins, mentre Crain è stato per alcuni anni nella Henry Paul Band. Non posso dire che questo disco sia indegno della tradizione degli Outlaws, anzi è più che decente, un po’ manierato nella scrittura e con delle chitarre meno ficcanti che in passato, ma il risultato è più che sufficiente. Tracce come Last Ghost Town, la ballata It’s About Pride che riassume la storia del gruppo, la sudista Right Where I Belong con le chitarre taglienti al punto giusto, la cavalcata di Trouble Rides A Fast Horse e la notevole nuova versione di So Long, classico di Paul di fine anni settanta, non avrebbero sfigurato in un vecchio disco dei fuorilegge. Certo altri brani sono più anonimi, ma alla fine non dispiace riascoltare un suono, una voce e degli impasti vocali che hanno significato molto per i fans del southern rock.
Paolo Baiotti
BAP KENNEDY – The Sailor’s Revenge (Lonely Street/Proper 2011)
Bap Kennedy è uno di quei nomi che sembrano destinati a restare di nicchia, ottenendo meno di quanto meriterebbero. Nordirlandese, leader alla fine degli anni ottanta degli Energy Orchard, band fok-rock di Belfast con la quale ha registrato cinque dischi tra i quali l’omonimo esordio e l’ottimo Shinola, molto apprezzati da Van Morrison e Steve Earle (che li scelsero come supporto), ma solo toccati marginalmente dal successo, si è successivamente dedicato ad una carriera solista sempre in secondo piano, pur avendo avuto la produzione di Steve Earle nel brillante esordio Domestic Blues (nel quale suonavano Nanci Griffith, Peter Rowan e Jerry Douglas). Neppure i successivi Lonely Street, con un brano nella colonna sonora di Serendipity, The Big Picture (con Van Morrison e Shane MacGowan) e Howl On hanno cambiato la situazione. La conoscenza con Mark Knopfler, che ha supportato in un tour mondiale, è stata la scintilla che ha portato alla produzione di The Sailor’s Revenge da parte del musicista britannico. E questo nuovo disco è forse il migliore della discografia solista di Bap, undici brani giocati su tempi lenti o medi, forse un po’ monocordi, profondamente irlandesi, di gran classe, raffinati, melodici, ben scritti…insomma un disco da segnalare ed ascoltare con attenzione che potrebbe finalmente dare a Bap qualche soddisfazione finanziaria oltre alla stima da parte di molti colleghi. L’influenza di Knopfler si sente nei suoni e negli arrangiamenti, facendo risaltare maggiormente la voce e la scrittura dell’artista, entrambe degne di nota. Tutti i brani sono sopra la media, ma se devo scegliere preferisco l’opener Shimmavale, il fok celtico della title track (debitrice anche di Dylan nella voce e nella melodia), di Not A Day Goes By, di Celtic Sea e Jimmy Sanchez, basata sulla recente vicenda dei minatori cileni di San Josè. Non fatevi sfuggire la doppia deluxe edition che aggiunge un secondo disco con undici brani scelti da Bap e tratti dalla discografia solista, una specie di Greatest Hits comprendente Unforgiven con Steve Earle, On The Mighty Ocean Alcohol (grande titolo) con Shane MacGowan, Milky Way scritta con Van Morrison e Moonlight Kiss (da Serendipity), oltre ad un paio di inediti e una versione alternata di Moriarty’s Blues da The Big Picture, uno dei brani preferiti dall’autore. Un disco prezioso, perfetto per una serata invernale, con il camino acceso ed una tazza di the o un bicchiere di whiskey…ovviamente irlandesi.
Paolo Baiotti
IAN GILLAN & TONI IOMMI – Who Cares (Edel 2012)
Questa compilation doppia nasce come completamento di un progetto benefico di Ian Gillan & Toni Iommi, amici di vecchia data e compagni per un breve periodo nei Black Sabbath. Nel giugno del ‘90 Gillan vola per la prima volta in Armenia (all’epoca ancora parte dell’Unione Sovietica); suona a Yerevan e visita Spitak e Gymri, città colpite duramente da un terremoto nell’88. Turbato dalle devastazioni e dal fatto che non c’erano posti per suonare e imparare la musica, con l’amico Toni Iommi si impegna per ottenere i fondi per ricostruire una scuola di musica a Gymri, prima con un singolo inciso da un supergruppo comprendente anche Jason Newsted (Metallica), Jon Lord (Deep Purple) e Nicko McBrain (Iron Maiden) e poi con un doppio album di rarità, inediti e classici delle band di riferimento. Who Cares è il nome del supergruppo e anche della doppia raccolta che comprende i due brani del singolo, Out Of My Mind e Holy Water e altri sedici tracce. Gli inediti sono Easy Come Easy Go dei Repo Depo, band formata da Gillan nel ‘94 prima dell’ennesimo ritorno nei Deep Purple, una bella versione acustica di When A Blind Man Cries e Dick Pimple, una jam dei Deep Purple risalente al periodo di Purpendicular. Le rarità sono due brani di Iommi con Glenn Hughes tratte dalle sessions di Fused, mai pubblicati su cd, Let It Down Easy e Slip Away e un paio di b-sides di singoli. Ci sono poi brani tratti da progetti minori come Ian Gillan & The Javelins e Garth Rockett & The Moonshiners, un dimenticabile brano di Gillan con il musicista greco Mihalis Rakintzis, due tracce dei Black Sabbath e una Smoke On The Water tratta dal live dei Deep Purple con la London Symphony Orchestra, con Ronnie James Dio come ospite. Una raccolta curiosa, senza una direzione precisa, ma di discreto interesse per gli appassionati di Purple e Sabbath.
Paolo Baiotti
TURCHI – Road Ends In Water (Devil Down 2012)
Reed Turchi è il giovane proprietario della Devil Down Records, l’etichetta specializzata in North Mississippi Hill Country Music, cioè nel down home blues di quella regione debitore di musicisti come RL Burnside, Otha Turner e Mississippi Fred McDowell, che ha oggi nei North Mississippi Allstars i rappresentanti più popolari e considerati. La label collabora all’organizzazione dell’annuale Hill Country Picnic, un festival al quale tra gli altri partecipano abitualmente i NM Allstars, Jimbo Mathus, Robert Belfour, Kenny Brown e i figli di Burnside. Ma Turchi è anche compositore, cantante e chitarrista di blues, dotato di una voce roca e grezza adeguata per questo genere musicale e di uno stile chitarristico alla slide diretto ed essenziale. Dopo essersi laureato all’Università del Nord Carolina a Chapel Hill, ha formato un trio con Chris Reali al basso e Cameron Weeks alla batteria, incidendo Road Ends In Water, un album comprendente sei brani originali e quattro covers che seguono il percorso ripetitivo, ipnotico ed essenziale del down home blues. Luther Dickinson offre un appoggio prezioso (e soprattutto la sua slide) in Keep on Drinking, un up-tempo che farebbe la sua figura anche nei dischi dei NM Allstars, in Be Alright, un boogie ipnotico con una batteria secca ed una slide insinuante e pungente e nella sofferta Dr. Recommended, giocata su un ritmo più lento e ipnotico. Quanto agli altri brani composti da Turchi Watcha Tryin è un mid-tempo aspro con la slide in evidenza, Do For You suona come se fosse la versione down home di un brano di Dylan (anche nell’uso della voce) e Junior’s Boogie ha un’ottima chitarra, sempre slide ed un testo aspro quanto il suono. Le covers sono il tradizionale Don’t Let The Devil Ride un po’ scolastico, una I Can’t Be Satisfied interessante, introdotta da una slide morbida e cantata con voce filtrata, un classico del Mississippi Country Blues come Shake ‘Em di RL Burnside eseguito da quasi tutti i musicisti locali ed il tradizionale gospel blues Keep Your Lamp Trimmed And Burning arrangiato con originalità e sensibilità. Un buon esordio, consigliabile soprattutto agli appassionati del genere, reperibile sul sito www.devildownrecords.com.
Paolo Baiotti
MARDI GRAS – Among The Streams (Route 61 Music 2012)
I Mardi Gras sono una band romana che deve il proprio nome all’omonimo disco dei Creedence Clearwater Revival, non suona musica influenzata dal carnevale di New Orleans, ma ha forti collegamenti con l’Irlanda sin dall’esordio del ‘06 con Drops Made. Dopo parecchi anni pubblicano il secondo album per la nuova label guidata da Ermanno Labianca che sta proponendo talenti interessanti della scena nostrana (a partire dall’ottimo Daniele Tenca). Il legame con l’isola di smeraldo è rafforzato dall’acquisizione della cantante italo-irlandese Claudia McDowell che caratterizza fortemente il disco con la sua voce potente, melodica e sicura. Registrato a Roma e masterizzato a Nashville dall’esperto Alex McCollough, l’album comprende nove brani composti dal chitarrista acustico Fabrizio Fontanelli e dal tastierista Alessandro Matilli, affiancati in formazione dalla sezione ritmica e dalla chitarra eletrica di Alessandro Cicala. La prima parte dell’album è la più convincente mettendo in fila Song From The End Of The World, un brano ben costruito con un inizio lento, una progressione che nel break pianistico è debitrice degli U2 ed una sezione drammatica resa brillantemente dalla voce di Claudia, il pop rock ritmato Scarecrow In The Snow e la splendida ballata Men Improve With The Years, con un testo che riproduce una poesia dell’irlandese W.B. Yeats e la partecipazione di Liam O Maonlai, cantante degli Hothouse Flowers (ovviamente irlandesi) impegnato in un duetto intenso e di gran classe con la McDowell. Il prosieguo è meno continuo, accentuando in alcuni brani una tendenza pop un po’ scontata, come in What Comes What Goes, traccia piacevolmente mossa tra Annie Lennox e gli U2, ma alquanto ruffiana, nella leggerina Ballad Of Love e nella ballata Hard To Believe dalla scrittura poco originale. I Mardi Gras comunque sanno scrivere brani melodici al punto giusto, basta ascoltare la calda ballata Sister I Know con piano e hammond sovrapposti o la conclusiva Satellite And Me. Ancora meglio il folk roots di Shine, con un testo dedicato a June Carter Cash, accompagnata dal violino di Adriano Dragotta e la rilettura personale di Land Of Hope And Dreams di Bruce Springsteen, già presente sul tributo a Bruce For You 2 pubblicato dalla stessa label, meno trascinante della versione originale (almeno di quella del Live in New York), leggermente ralllentata, più folkeggiante, con un sottofondo di tastiere ed un assolo di chitarra rilassato. Peccato che la cantante abbia lasciato la band per motivi personali, sostituita da Claudia Loddo. Il disco è reperibile sul sito http://www.route61music.com/.
Paolo Baiotti
DECEMBERISTS – Long Live The King (Capitol 2011)
The King Is Dead è stato considerato da molti uno dei dischi più riusciti ed importanti dell’anno scorso, aumentando notevolmente la popolarità della band di Portland che ha registrato una serie di brani più brevi e melodici, lasciando da parte le influenze prog del passato e accentuando gli aspetti pop-rock con influenze folk-roots. Ora, in attesa dell’imminente doppio dal vivo atteso per il mese di aprile, esce un mini album (non il primo della loro storia) di sei canzoni incise in Oregon nel corso delle sessions dell’album sopra citato. Invece di una deluxe edition che avrebbe costretto i fans a ricomprare The King Is Dead, i ragazzi hanno scelto saggiamente di pubblicare un ep a prezzo contenuto di venticinque minuti, curato come al solito nella confezione e nel suono. Queste sei outtakes non sono scarti, anzi non avrebbero sfigurato sul disco di riferimento e tutto sommato hanno una loro coesione e continuità. E.Watson è un folk acustico dagli accenti drammatici con un testo personale e Laura Veirs ai backing vocals, Foregone un brano country-roots con una deliziosa steel guitar, interpretato alla perfezione dalla voce melodica del leader Colin Meloy, Burying Davy una folk song che mi ha ricordato i britannici Fairport Conventon (con una interessante chitarra psichedelica). I 4 U & U 4 Me è un home demo registrato dal solo Meloy, un up-tempo tra folk e pop, mentre l’unica cover è Row Jimmy dei Grateful Dead, composta da Jerry Garcia e Robert Hunter, eseguita in scioltezza con la chitarra slide di Chris Funk ed il piano di Jenny Conlee in primo piano, rispettando la versione originale, ma allo stesso tempo riuscendo a non apparire scolastici. In chiusura l’atipica Sonnet, versione inglese del Sonetto di Dante Alighieri a Guido Cavalcanti, è l’ennesimo riferimento letterario della band americana, con una base musicale acustica nella parte cantata e poi più mossa con una sezione fiati in stile New Orleans che non guasta. Un’altra conferma delle qualità di una delle band migliori del momento.
Paolo Baiotti
UFO – Seven Deadly (Spv/Steamhammer 2012)
Una delle band classiche del rock britannico, attiva dai primi anni ‘70, dopo i primi tre album di rock psichedelico ha virato verso un hard rock melodico che ha caratterizzato il resto della sua storia. Il quintettto comprende ancora due membri della formazione originale, il cantante Phil Mogg ed il batterista Andy Parker, oltre al chitarrista Vinnie Moore ed al tastierista Paul Raymond, mentre dopo l’abbandono del bassista Pete Way il ruolo è stato ricoperto in studio da Lars Lehmann. Questo è il quarto album in studio con Moore alla chitarra; è entrato nella band nove anni fa sostituendo Michael Schenker che ha fatto parte a più riprese dagli Ufo, ma ne ha segnato il periodo più importante e di successo nella seconda metà degli anni settanta. Oggi il gruppo prosegue senza scosse, nessuno si aspetta da loro un album della qualità dei classici Obsession o Lights Out, per non parlare del seminale live Strangers In The Night, ma la loro produzione non è mai scesa sotto il livello di guardia, mantenendo una dignità ed una linearità ammmirevoli (escluso un periodo alla fine degli anni ottanta). A due anni abbondanti di distanza da The Visitor, questo Seven Deadly conferma pregi e difetti della band attuale: il pregio migliore è la capacità di miscelare hard rock e melodia, creando un sound che si adatta alle qualità vocali del sempre impeccabile Mogg, il difetto una certa uniformità di scrittura che appiattisce il risultato complessivo del disco. Tra le dieci tracce (dodici nell’edizione limitata in digipack) registrate a Colonia e prodotte da Tommy Newton non ci sono brani che svettano per originalità, ci sono professionalità, esperienza e la capacità innata di scrivere in un certo ambito che non interessa a molti gruppi contemporanei ed è sicuramente destinato ad un pubblico di nicchia. Comunque dopo qualche ascolto apprezzo maggiormente l’opener Fight Night che alterna momenti ritmati ad altri più melodici con un bell’assolo centrale di Moore, l’incalzante Wonderland punteggiata dalla slide e caratterizzata da un assolo spagnoleggiante, la ballata Angel Station con un assolo melodico ben costruito, la drammatica Burn Your House Down (eccellente interpretazione di Mogg) con la chitarra protagonista del gustoso break melodico e della coda strumentale, infine l’atipica bonus track Bag O’ Blues, delizioso blues per piano e voce. Un disco solido che piacerà ai fans di vecchia data.
Paolo Baiotti
OTIS RUSH – All Your Love I Miss Loving (Delmark 2005)
Nato nel 1934, Otis Rush è uno dei pochi grandi del blues ancora in attività. Considerato uno dei tre chitarristi innovatori di Chicago della seconda generazione con Buddy Guy e Magic Sam, ha avuto una grande partenza con le incisioni per la Cobra Records di fine anni cinquanta e poi fasi alterne con eventi sfortunati e case discografiche che non lo hanno tutelato a sufficienza. Questo compact è stato registrato dal vivo al Wise Fools Pub di Chicago nel gennaio del ’76 e fa parte di una serie di registrazioni radiofoniche per la WXRT recentemente scoperte negli archivi e pubblicate dalla Delmark, con la quale nel ‘75 Rush aveva inciso il valido Cold Day In Hell. Accompagnato dalla sua band migliore con l’aggiunta del pianista Alberto Gianquinto (un po’ basso nel mixaggio) ed in qualche brano da una sezione di fiati, il chitarrista si esprime al massimo, protagonista di assoli pirotecnici ma sempre ben dosati con il suo caratteristico vibrato e si conferma anche un eccellente cantante, dotato di un timbro profondo, intenso e sofferto, giganteggiando sia nei brani veloci che negli slow, suo marchio di fabbrica, presenti in gran numero. Oltre ai classici del suo repertorio come All Your Love, ripresa da quasi tutti i chitarristi blues dell’ultimo trentennio, in una versione brillante e grintosa e Gambler’s Blues, uno slow pieno di pause e ripartenze di grande efficacia, spiccano tra i brani veloci l’iniziale Please Love Me, dal riff simile a Sweet Home Chicago, Woke Up This Morning e la trascinante Feel So Bad, mentre tra i brani lenti preferisco la splendida You’re Breaking My Heart con un assolo introduttivo da antologia, una fiera cover di Mean Old World di T-Bone Walker e Sweet Little Angel, un’interpretazione sofferta al punto giusto con evoluzioni da brividi del chitarrista. Un dischetto di ottima qualità sonora che celebra degnamente uno dei grandi del blues, sperando di poterlo applaudire prima o poi anche nel nostro paese.
Paolo Baiotti
I.Q. – IQ 30 (Archive Collection 2012)
Anche gli IQ, gloriosa band della new wave del prog britannico dei primi anni ottanta, sono giunti al trentennale…come passa il tempo! E per celebrarlo hanno registrato il concerto olandese del 23 ottobre 2011 a Zoetermeer, una delle roccaforti dei pochi, ma affezionati fans della band britannica. Accanto ai membri originali Peter Nicholls (voce), Paul Cook (batteria) e Mike Holmes (chitarra), l’unico sempre presente in questi anni, ci sono il nuovo tastierista Neil Durant ed il bassista originale Tim Esau assente da vent’anni. Questo rimescolamento della formazione ha condizionato anche la setlist del tour, decisamente interessante e molto varia. Viene riproposto quasi interamente l’esordio Tales From The Lush Attic dell’83, escluso un breve strumentale, compresa la rara Through The Corridors e la drammatica The Eneny Smacks, uno dei brani più complessi del primo periodo, adorato dai fans di vecchia data. Ogni album viene toccato, compresa la raccolta di demos Seven Stories Into Eight con gli strumentali Eloko Bella Neechie e About Lake Five e compreso Are You Sitting Confortably, mal riuscito tentativo dell’89 di mischiare prog e pop (con Paul Menel alla voce al posto di Nicholls) con il medley War Heroes/Nothing At All. Interessante la versione di Human Nature con il sax di Jonny Griffiths, presente anche in Capricorn, unica traccia dal doppio concept Subterranea. Il doppio è splendido, non ci sono punti deboli; le esecuzioni sono brillanti, la band sembra in continuo miglioramento ed ha un repertorio di alto livello, compresi i brani più recenti come Frequency e la melodica Guiding Light. Un ottimo riassunto di trent’anni da ricordare da parte di una delle poche band che ha continuato a suonare prog romantico, incurante delle mode e di un riscontro limitato.
Paolo Baiotti
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