BONNY JACK – Somewhere, Nowhere
BONNY JACK
Somewhere, Nowhere
Autoprodotto / AZ Press – 2025
Chi mastica di fotografia conosce la differenza tra il formato raw (ossia grezzo) ed il lezioso jpg, risultato di elaborazioni in fase di post-produzione. Ebbene, la terza prova discografica di Bonny Jack, dall’interessante titolo Somewhere, Nowhere, è assimilabile a un fotogramma sonoro in formato raw, che sappiamo essere il migliore in quanto privo di edulcorazioni. Le undici tracce del disco arrivano all’ascoltatore dirette, nude, scevre di artifizi che possano alterarne l’immediatezza. Ed è esattamente ciò che serve per conservare ogni granello di polvere depositatasi sui camperos e per disegnare quelle atmosfere dark-western che Bonny Jack riesce a miscelare con un blues primitivo e con l’irruenza del combat folk più genuino. Il ricorso alla lingua inglese risulta dunque appropriato, perché altrimenti come lo racconti il deserto geografico e interiore che ti brucia dentro? Congrui anche gli arrangiamenti, affidati all’incisiva fisarmonica di Angelica Foschi, all’armonica di Ren Vas Terul, al violino segnante di Brian D., alla slide nonché chitarre elettriche e armonica di Guido Jandelli, alle percussioni di Andrea Vettor e infine alla voce di Alia; oltre naturalmente al banjo e all’imprescindibile chitarra di Bonny Jack, il quale qui lascia a casa l’elettrica optando per un’acustica arrembante, perché resta inteso che il suo formato preferito è quello one man band, supportato da kazoo, tamburi a pedale e sonagli a cavigliera. Eppure non disdegna una coralità quasi tribale, come quella che si apprezza nel canto corale di Wake up. Classe 1984, al secolo Matteo Senese, Bonny viene attratto precocemente dalla chitarra, milita in svariate band nostrane e poi si trasferisce a Seattle, dove respira grunge a pieni polmoni prima di rientrare in Italia con un bagaglio musicale ormai maturo. La pubblicazione di Somewhere, Nowhere è preceduta dal singolo Carnival valley, per chi scrive il brano migliore della raccolta: il giro armonico mi rimanda immediatamente a Good shepherd e il suono sembra proprio quello dell’aeroplano Jefferson periodo Volunteers. Un’influenza inattesa e decisamente gradevole. Poi si vira con naturalezza e senza stridore alcuno alle sonorità mariachi di Mexican standoff, dove la tromba di Tyler R. regala l’attesa dose di Messico. Degna di menzione anche l’affascinante Post apocalypse song, una sorta di native song da cantare sommessamente e con cuore ispirato davanti ad un tepee evocando l’Erdgeist, lo spirito della Terra. Ulteriore conferma che questo disco è in definitiva il racconto di un viaggio spirituale in bilico tra giorno e notte, tra arsura e sorgente, tra morte e vita. In altre parole tra opposti, come sembra avvalorare il disegno interno alla confezione di cartoncino grezzo (anch’esso decisamente raw) che mostra un volto tagliato in diagonale, per metà teschio e per metà truccato a festa.
Donata Ricci
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