Elegia del grigio
Non avevo mai pensato che mi sarei trovato
A letto tra le pietre
Le colonne sono tutti uomini
Che vogliono solo schiacciarmi
Nessuna forma si muove sui laghi scuri e profondi
E non ci sono bandiere che mi riportino a casa
Nelle grotte
Tutti i gatti sono grigi
Nelle grotte
Le trame mi ricoprono la pelle
Nella cella della morte
Una sola nota
Risuona ancora ed ancora ed ancora…
Prima del nero di ordinanza, prima dei colori ritrovati di un tramonto lungo e sereno del quale forse avremmo preferito non essere testimoni, ci fu un tempo in cui gli incubi e le visioni di Robert Smith si tinsero irrimediabilmente di grigio, come i gatti che affollavano quella cella in cui lo imprigionavano i propri fantasmi, nelle profondità abissali di una malinconia che era anche orgoglioso e compiaciuto distacco da una vita normale, da un mondo normale. I confetti wave appena sporcati da una lacrima di malessere adolescenziale di “Three Imaginary Boys” (1979) virarono ben presto nelle tinte seppia di “Seventeen Seconds” (1980), ma il suo grigio chiaro era ancora attraversato, qua e là, da una spruzzata di colore.
L’immagine sfocata, quasi astratta, che compare sulla copertina di “Faith” (1981), sprofonda il mondo di Robert Smith in una nebbia fittissima ed impenetrabile: un grigio totale che copre tutto, nasconde ogni cosa e deforma qualsiasi immagine modificandone i contorni. Così le rovine della Bolton Abbey, una vecchia abbazia dello Yorkshire che popolava gli incubi notturni del piccolo Robert, viene trasfigurata in un soggetto irriconoscibile, e la pianta in primo piano assume le sembianze di un groviglio di rami scheletrici, quasi fosse l’artiglio di una strana creatura mostruosa della quale si può solo immaginare il resto del corpo. La realtà, insomma, non viene più rappresentata come quello che appare agli occhi, ma viene costantemente filtrata, trasformata, deformata dal mondo del sogno o, più spesso, da quello dell’incubo.
Sulle note lente e solenni di questa splendida marcia funebre, sui suoi bassi cavernosi, sulle tastiere eteree e maestose, sulla voce di Robert Smith che entra in sordina, quasi senza disturbare, e se ne va poco dopo trascinata dal lento fluire dello strano corteo per sparire in fondo ad esso senza quasi lasciare traccia, in tanti abbiamo costruito una dimensione parallela, intima, assolutamente personale; abbiamo scovato un malessere al quale non abbiamo più permesso di abbandonarci perchè, in fondo, rappresenta sempre un rifugio sicuro. Uno dei pochi. La malinconia nella quale, ogni tanto, è bello sprofondarsi, al riparo da tutto e da tutti, in compagnia dei propri pensieri e di quei bilanci che chiudono sempre in perdita.
Special Guest: Teo
Tags: The Cure