TWELVE GATES – Twelve Gates
Twelve Gates (Appaloosa/IRD 2023)
Disco strano (per i canoni abituali dell’Appaloosa) e di non facile assimilazione.
Innanzitutto, la formazione che lo ha registrato e il cui nome non è ben stabilito se sia appunto Twelve Gates o se questo sia piuttosto il titolo e i titolari non siano piuttosto i quattro musicisti coinvolti nel progetto: Charlie Cinelli, Pietro Tonolo, Giovanni Giorgi, Giancarlo Bianchetti.
Molto qualunque la veste grafica, per non dire proprio brutta.
Sulla carta sembrerebbe un progetto in omaggio a certo blues, in particolare a quello del reverendo Gary Davis, ma la strumentazione usata, dal basso, alla batteria alla chitarra elettrica fino all’eccsivo sax di Tonolo, spiazza parecchio e almeno un paio di brani con quel certo blues hanno poco a che fare.
Il reinventare in chiave jazz un brano come Death Don’t Have No Mercy non è facile, e difatti il risultato sono otto minuti di noia di cui si salva praticamente il cantato di Cinelli.
Le cose vanno meglio con I’m The Light Of This World, rivista in chiave quasi calypso con Tonolo al flauto e con un assolo di chitarra storto di Bianchetti. River Man è un omaggio al repertorio di Nick Drake, più facilmente riconducibile agli abiti creati dal quartetto, sempre bene Cinelli che ci mette la voce giusta.
Il lungo medley Another Man Done Gone/Twelve Gates To The City mescola effettistica e sonorità di matrice afro con una vocalità non distante da certe cose di Nick Cave. Sembra regnare un po’ l’indecisione su quale sia il pubblico a cui il quartetto si vuole rivolgere.
Railroad Worksong ha il pregio di essere più breve e convince anch’essa per l’approccio al cantato di Cinelli più che per l’arrangiamento, e lo stesso si può dire per Poses di Rufus Wainwright, che esce dai binari blues del resto del disco.
Della classica Black Betty abbiamo ascoltate ben più convincenti versioni, la lunga introduzione strumentale a base di sax ed effetti ci riporta al Gary Davis del medley I’ll Be Alright/I’ll Fly Away, piacevole, che precede il finale (sempre di Davis) I Will Do My Last Singing trattata in chiave jazz.
Di certo non un disco imprescindibile.
Paolo Crazy Carnevale
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