LOGAN LEDGER – Logan Ledger

Logan Ledger 2020 1[429]

LOGAN LEDGER – Logan Ledger (Rounder 2020)

Una delle più stimolanti uscite dell’anno questo disco dell’esordiente Logan Ledger. Avevo avuto modo di apprezzarlo personalmente lo scorso anno ad Austin in un concerto pomeridiano in cui si esibiva prima della Markus King Band: distrattamente, perché l’attenzione era tutta concentrata sull’attesa di King e soci, ma non abbastanza distrattamente da non percepire delle buone cose nella proposta di Ledger, che lì era accompagnato da una band al femminile.

E a conferma di quella fugace impressione è arrivato il disco in questione, prodotto da T-Bone Burnett. Ammetto di non essere un amante di Burnett e delle sue produzioni, deve essere un mio limite, ma fatico ad apprezzare quelli che per i più sono capolavori di produzione. Ovviamente l’esordio di Ledger è qui per smentirmi. Pur inciso a Nashville, dove Ledger si è stabilito, il suo debutto è un disco molto texano, innanzitutto per via del produttore, in secondo luogo per molti richiami alla musica di Buddy Holly e alla voce di Roy Orbison (due texani D.O.C.), e per finire per la presenza in sede compositiva di Steve Earle (uno dei texani adottivi che preferisco).

Il suono del disco è sorretto dalla sezione ritmica abituale dei lavori di Burnette, Jay Bellerose alla batteria e Dennis Crouch al basso, ci sono poi lo stesso producer e Marc Ribot alle chitarre, ma soprattutto c’è l’immenso Russ Pahl, pedal steel, chitarra elettrica e chitarra baritonale: in assoluto uno dei più importanti musicisti di stanza a Nashville il cui lavoro si fa apprezzare in un sacco di ottimi dischi recenti.

Fin dall’iniziale Let The Mermaids Flirt With Me è evidente di che stoffa sia fatto il songwriting di Ledger e quale sia la portata del disco, si tratta di una composizione molto interessante, seguita da Starlight, intenso brano che già alla fine dello scorso anno aveva fatto da apripista all’esordio di Ledger che canta qui con particolare intensità. Nelle seguenti Invisible Blue e I Don’t Dream Anymore l’atmosfera è quasi psichedelica, non tanto per la struttura ma per l’effetto finale creato dai musicisti: in particolare nella prima, composta con Pahl, il contesto è molto onirico e la chitarra baritonale del coautore è fantastica, nella seconda invece, è la pedal steel ap rendere il sopravvento e a far volare la composizione.

Il primo lato si chiude con la lenta e sofferente Nobody Knows, ancora con un lavoro sopraffino di tutte le chitarre: ascoltate gli intrecci orditi da Pahl, Burnett e Ribot e fatevi trasportare dall’intensità della voce di Ledger.

La seconda parte si apre con un brano firmato dal produttore, (I’m Gonna Get Over This) Some Day, composta di certo con in mente Buddy Holly, che qui rivive splendidamente, e cantata da Ledger con limpidezza e lirismo. Altra la stoffa di Electric Fantasy che occhieggia invece allo stile più languido di Roy Orbison, ma che in verità si sviluppa in un crescendo che in un disco di Orbison avrebbe fatto ricorso agli archi e qui invece si fa supportare dal parco chitarre a disposizione e dalle tastiere di Keefus Ciancia. Ancor più languida la successiva Tell Me A Lie in cui i rimandi a The Big “O” si fanno ancor più evidente; Skip a Rope è l’unico brano non originale del disco (nel 1967 fu un successo per Henson Cargill), bella versione con – inutile dirlo – strepitoso lavoro della pedal steel di Pahl.

The Lights Of San Francisco è il brano composto con Steve Earle, una signora canzone come si deve, refrain accattivante, interpretata e suonata senza sbavature, sempre con Pahl sparring partner totale della voce di Ledger. A chiudere il disco lo slow Imagining Raindrops, degno suggello di un disco da non sottovalutare!

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