NEIL YOUNG WITH CRAZY HORSE – Colorado

Neil Young Colorado[80]

NEIL YOUNG WITH CRAZY HORSE – Colorado (Reprise 2019)

Neil Young è tornato a cavalcare col cavallo pazzo. Era da qualche anno che aveva messo in naftalina Billy Talbot e Ralph Molina, compagni d’avventure sonore sia con la dicitura Neil Young & Crazy Horse che con quella meno usata di Neil Young with Crazy Horse (come in questo caso).

Quisquilie. La vera differenza è che stavolta al posto di Frank Sampedro c’è Nils Lofgren, una sorta di ritorno, Lofgren aveva suonato con Neil Young (e con i Crazy Horse) su After The Goldrush e Tonight’s The Night, dischi accreditati al solo Young, e aveva preso parte al disco d’esordio del gruppo, quando ancora ne faceva parte Danny Whitten: tutto questo per stabilire quanto a buon diritto Lofgren possa essere considerato parte della formazione.

La cosa più importante però, oltre al ritorno dei Crazy Horse è che questo sembra essere il miglior disco di Young fin dalla precedente avventura con il gruppo, l’indispensabile Psychedelic Pill, a cui erano seguiti cinque dischi abbastanza imbarazzanti, sia per la mancanza di materiale pregevole, sia per la fretta con cui erano stati registrati e messi in commercio. Il tempo aveva dimostrato quanto fosse davvero un problema di fretta, visto che Peace Trail (dall’inascoltabile album omonimo) era stato ripreso in versione eccellente sulla colonna sonora di Paradox. Il disco meno malvagio di questi anni era stato il più recente Visitor, ma non ci voleva molto ad essere meglio di Peace Trail, Monsanto Years, Storytone e del live con i Promise Of The Real. Quanto alla fretta bisogna ammettere che anche questo Colorado è stato fatto abbastanza frettolosamente, però con i Crazy Horse è diverso, c’è un’altra attitudine, un’intesa subitanea, e poi stavolta le canzoni ci sono. Magari non tutte allo stesso livello, ma ci sono.

Young non è più un ragazzino, va da sé che spesso i testi dei brani siano dedicati al passato vissuto, ma continua ad essere presente in maniera determinante quell’impegno eco-sociale che non è mai mancato nelle sue canzoni, meno che mai negli ultimi tempi.

Dire che il meglio del disco arriva all’inizio non è del tutto sbagliato, Think Of Me può essere considerato il brano migliore, c’è tutto: innanzitutto è una canzone a tutto tondo (ultimamente Young canta meno e recita di più, e non è un problema di voce perché il duetto con Jakob Dylan nella beachboysiana I Just Wasn’t Made For These Times, sulla colonna sonora di Echoes In The Canyon, ci dice che la voce c’è), poi ci sono tutti gli elementi che di solito si associano alle canzoni del canadese, vale a dire la voce, l’armonica, la chitarra, il piano, la sezione ritmica. Il brano successivo è la chilometrica She Showed Me, una furiosa cavalcata, nel miglior stile Young & Crazy Horse, quasi un quarto d’ora di elettricità totale dedicata a madre Terra. Seguono poi le rimembranze di Olden Days, altro brano di buona fattura. Bruttina invece Help Me Lose My Mind, cantata quasi fosse un’invettiva mentre invece si tratta di una richiesta d’aiuto; torna invece l’impegno ecologico, il grido d’allarme per i disastri combinati dall’uomo all’indirizzo dell’ambiente in Green Is Blue, brano dai toni rilassati, dimessi, con Neil al piano e al vibrafono e Lofgren alla chitarra.

Shut It Down, ossessiva e di nuovo molto elettrica, oltre che arrabbiata, è la critica della critica, la protesta della protesta, uno strale contro chi della difesa dell’ambiente fa uso per moda o per convenienza e non per convinzione.

Più introspettiva e fantastica l’atmosfera di Milky Way, cantata quasi sottovoce, recitata ma corredata da una chitarra sostanziosamente efficace. Piacevolissima Eternity, sembra di tornare ai tempi di After The Goldrush (voce a parte), con Young di nuovo al piano e al vibrafono mentre Nils sta all’elettrica, con un testo sulla piacevolezza della vita semplice, familiare.

Rainbow Of Colors è corale, con una melodia che richiama vagamente la dylaniana With God On Our Side, e d’altronde il testo è un’invettiva contro chi erige muri che separano, ma è anche una canzone patriottica che inneggia lo spirito buono della nuova patria di Young (che dopo aver abitato per oltre cinquant’anni negli Usa ha recentemente ottenuto la cittadinanza).

La chiusura è affidata all’intima e ancora una volta ambientalista I Do, forse troppo lunga e noiosetta nella struttura, ma dal testo ineccepibile.

Un buon disco in definitiva, con una copertina orrenda, come la stragrande maggioranza delle copertine dei dischi di Neil Young da troppi anni in qua.

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