ROBERT RANDOLPH & THE FAMILY BAND – Brighter Days

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Robert Randolph & The Family Band – Brighter Days (Provogue 2019)

Non c’è ormai dubbio, Robert Randolph va via via maturando: non che prima fosse acerbo, strumentalmente aveva dato ampie dimostrazioni di classe e abilità strumentale già dal primo disco “vero”, quello sotto la denominazione The Word, il supergruppo con i North Mississippi Allstars e John Medeski, un caposaldo assoluto della musica strumentale, del genere jam e, se vogliamo, anche di un certo modo di fare southern rock.

CI sono voluti un po’ di anni e un po’ di dischi da solista però per arrivare ad avere dei prodotti che stiano insieme anche senza dover andare a pescare ospiti titolati per attirare l’attenzione: se il precedente LP di Randolph, I Got Soul era stato una bella conferma dello status raggiunto come performer live, questo nuovo disco lo è ancor di più. Merito senz’altro della produzione mirata e ben costruita di Dave Cobb, che già pochi mesi prima era stato il gran rifinitore del gran disco della Marcus King Band. Anzi, personalmente trovo Cobb più idoneo a produzioni elettriche e per così dire di matrice rock-blues che non quando siede in regia per i cantautori di Nashville.

Nashville è però il suo locus operandi e quindi anche il disco di Randolph e famiglia è stato registrato nella città musicale del Tennessee.

Niente ospiti di grido, solo un coro di voci soul e la chitarra dello stesso Cobb, per il resto è tutta farina delle chitarre di Robert, della batteria del fratello Marcus, delle voci di Lanesha (la sorellona) e di Steven Ladsen, del basso suonato dal cugino Danyel Morgan, tornato in seno al gruppo, e delle splendide tastiere di Philip Towns.

Il risultato è uno dei dischi migliori dell’anno, che si gioca la palma con quello dei Long Ryders e quello delle Ace Of Cups (in realtà uscito a fine 2018).

Ovviamente a guidare le danze è sempre la pedal steel multisonora suonata dal leader di questa splendida famiglia musicale, Randolph si conferma sovrano nella padronanza di questo strumento, che suona con la stessa aggressività e pirotecnicità con cui Jimi Hendrix suonava la Stratocaster bianca che ben sappiamo. Non solo è in costante crescita anche a livello vocale.
Rock e blues, anzi, più che blues, soul: rock e soul. Questo è il termine giusto per definire la musica di Brighter Days.

La prima facciata è da urlo, cinque brani, uno dietro l’altro, col gruppo in tiro da battaglia. In apertura c’è già uno dei brani migliori, con la chitarra che si sbizzarrisce e l’organo che si infila dappertutto: si tratta di Baptise Me, cantato benissimo da Robert con la sorella Lanesha che gli mette a disposizione una voce intrisa di anima e cuore da manuale. Don’t Fight Me è invece un brano da combattimento bello e buono, di quelli utili per incendiare le esibizioni sul palco, pedal steel tiratissima, soprattutto nel finale, un boogie virato al funk come non è da tutti fare.

Poi, spiazzando tutti, Robert sfodera una versione da pelle d’oca di Simple Man, di Pops Staples, e l’atmosfera si rende più intima, la voce di Randolph è perfettamente a proprio agio con l’atmosfera e le chitarre (la sua e quella di Cobb) creano una situazione notturna impreziosita dal lavoro di Philip Towns al piano elettrico. Applausi. Come se non bastasse nel brano seguente, Have Mercy, sul tappeto di tastiere Robert duetta con Lanesha resuscitando immagini sonore di un country/soul/rock che temevamo perduto nelle pieghe dei primi anni settanta. La pedal steel è lancinante, il lavoro del basso eccellente quando fondamentale: il duetto tra i due fratelli ricorda quelli eccelsi di Delaney & Bonnie (altra coppia di parenti musicali a me molto cara).

Di nuovo applausi.

Poi, a chiudere la prima facciata, Cut Em Loose, brano più veloce, tosto e, soprattutto sempre molto ispirato.

La seconda parte (il vinile è color viola, bellissimo!) si apre con un piano che ricorda certe cose di Leon Russell, quello dei tempi d’oro: il brano è Second Hand Man, molto elettrico, corale, niente vocalizzi elettrizzanti ma grande dispiego di chitarre. Cry Over Me è invece una ballatona cantata dalla sola Lanesha. L’interpretazione è buona, sotto la voce si muovono piano e organo, Lanesha canta bene, forse il brano è un po’ ripetitivo, o forse solo troppo lungo. Soul pop, e ancora viene in mente Leon Russell (magari quando girava con Joe Cocker), è la matrice di I Need You, un’altra ballata struggente in cui Randolph alla voce duetta con la sua pedal steel, ben supportato dalle tastiere. È poi la volta di una bella cover di Little Milton, I’m Living Off The Love You Give: grande resa, molto solida, ben cantata con CObb alla ritimica in odor di Doobie Brothers e California w Randolph che spazia su tutto il manico della pedal steel. Più di maniera la finale Strange Train, sferragliante boogie cantato da tutti all’unisono, con una bella parte rallentata nel mezzo ed il basso in grande evidenza nell’incandescente parte finale.

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