ROLLING STONES – Blue & Lonesome

rolling stones blue and lonesome[920]

ROLLING STONES – Blue & Lonesome (Promotone/Rolling Stones Records 2016)

Vecchio grande amore… I Rolling Stones… devo ammettere che li avevo lasciati per strada da un pezzo. Mi correggo, non ho mai smesso di ascoltarli, ma i dischi recenti – e voglio dire dagli anni ottanta in poi, dopo Tatto You – mi erano sembrati via via sempre più fiacchi, talvolta anche suonati senza voglia, con canzoni qualunque. Non mi erano piaciuti né Voodoo Lounge né A Bigger Bang, tantomeno il resto, esclusi naturalmente i live. Quella è un’altra storia. Su tutti Stripped e il DVD quadruplo 40 Licks.

Il fatto che stessero facendo un disco nuovo dopo undici anni dal precedente non mi aveva quindi coinvolto più di tanto, nonostante si trattasse di un disco blues. E poi, preoccupante quanto mai, c’era il fatto che a produrre avessero chiamato l’invadente e ridondante Don Was.

Poi, più per caso che per altro, mi è capitato tra le mani Blue & Lonesome, con qualche giorno d’anticipo rispetto all’uscita prevista per giunta, ed è stato un colpo di fulmine: giuro che ormai ero convinto che il vecchio Keith e soci avessero esaurito la benzina, almeno per quanto riguarda l’approccio allo studio di registrazione. Certo, questo è un disco di cover, di vecchi blues malati e vibranti, grondanti torride atmosfere; ma i Rolling Stones non erano nati proprio come cover band? E allora che male c’è?

Blue & Lonesome è bello da morire e anche se è uscito da quasi due anni – ho voluto lasciarlo decantare e riascoltarlo periodicamente per essere sicuro di confermare la prima impressione – è giusto, giustissimo dirne.

Dischi blues ne vengono prodotti a decine ogni mese, alcuni notevoli, e su queste colonne se ne parla abbondantemente. Ne vengono prodotti anche di più dozzinali, o quantomeno di meno ispirati. I Rolling Stones danno ancora la birra a parecchia gente quando tornano a questo loro vecchio amore.

Sempre di vecchi amori si tratta: loro per me, il blues per loro.

E i vecchi amori, se sono veri vanno rispettati e trattati con i guanti: Jagger, Richards, Wood e Watts (più i soci non titolari) si accostano al blues con la stessa freschezza (e inevitabilmente un po’ di mestiere in più) di un tempo, infilando una dozzina di brani che potremmo definire classici minori, suonando come se si trovassero di nuovo negli studi Chess, o in quelli della Vee Jay, dove i loro idoli degli esordi hanno scritto la storia del genere.

Sarebbe stato troppo facile andare a rifare quei brani che tutti ricordano, facile e scontato, l’intelligenza degli Stones invece sta proprio nell’aver scelto oculatamente altre canzoni.

Così ecco scorrere una dietro l’altra le composizioni di Chester Burnett, Walter Jacobs, Magic Sam e Willie Dixon (per dire solo quelli più noti).

Grande, subito, l’inizio, affidato a Just Your Fool, poi tocca a Commit A Crime, immensa, e alla title track, che è tra le cose migliori della raccolta. Wood e Richards macinano blues con le chitarre, Jagger oltre a cantare rispolvera l’armonica, ricordandoci quanto bravo fosse con questo strumento, Watts sui tamburi è essenziale come sempre. Poi ovviamente c’è il bassista Daryl Jones e al piano l’inestimabile Chuck Leavell. Anche All Your Love è torrida, mentre I Gotta Go vira verso il boogie, prima di cedere il passo a Everybody Knows About My Good Thing che ospita Eric Clapton alla slide, inconfondibile: bel brano, bella scelta e bella esecuzione, col piano di Leavell in evidenza.

Ride ‘Em Down è ripescata dal repertorio di Bukka White, Have To See You Go contiene un altro bell’intervento dell’armonica e Hoodoo Blues di Lightnin’ Slim è interpretata con gran gusto e con le percussioni aggiunte di Jim Keltner. Little Rain è di Jimmy Reed ed ha tutta la tensione delle dodici battute, lenta, con l’armonica vibrante ed un suono delle chitarre che ci ricorda quanto Ron Wood sia molto di più che un gigione sparring partner per Keith “the human reef”.

In chiusura due brani di Willie Dixon, la movimentata Just Like I Treat You e la più nota – forse l’unico brano leggermente più celebre della raccolta – I Can’t Quit You Baby, in una bella esecuzione, di nuovo con Clapton ospite a dialogare con le sei corde di Wood e Richards, e con Jagger che canta più nero che mai.

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