NEIL YOUNG + PROMISE OF THE REAL – The Visitor
NEIL YOUNG + PROMISE OF THE REAL – The Visitor (Reprise 2017/2018)
Ci sono stati dei momenti in cui ho atteso ogni nuovo disco di Neil Young con golosità. Poi negli anni ottanta ha sparato un brutto disco dietro l’altro, alcuni davvero bruttissimi e inascoltabili, tanto che a un certo punto ho anche smesso di comprarli. Poi è rientrato nelle mie grazie, o meglio, è tornato nelle grazie dell’ispirazione. Ora sono un po’ di anni che i suoi dischi mi lasciano nuovamente perplesso.
L’imprevedibilità è sempre stata di casa nella sua discografia. Ma dopo Psychedelic Pill non c’è un solo disco che mi piaccia. Si salva qualche brano. Molti sono poco ispirati, fuori sintonia. Young è così, prendere o lasciare, ma che fatica!
Tralasciando i dischi d’archivio, sempre dignitosi, in particolare il recentissimo Hitchhiker, questo The Visitor sembra comunque essere quello riuscito meglio, ma contiene cose che sarebbe stato meglio lasciare nei cassetti. A vita.
Posto che il canadese ha sempre e comunque qualcosa da dire, se non altro nei testi, l’accompagnamento dei Promise Of The Real sembra più azzeccato che nell’altro disco di studio inciso con loro, e sì che dal vivo (ma non di certo nell’appena passabile doppio live Earth) i ragazzi spaccano!
Qui comunque si inizia con un brano politico sicuramente ben riuscito, al di là del testo che vorrebbe risvegliare le coscienze di quegli americani che hanno votato Trump sperando di tornare una grande nazione, la musica viaggia dalle parti delle sonorità dello Young del 1973, con venature blues e belle chitarre. Il brano successivo, Fly By Night Deal, è però un tonfo, davvero brutto. È un attimo che per fortuna dura poco, la canzone che segue, Almost Always è per contro una delizia, una delle perle del disco, peccato che ricordi alcuni passaggi di From Hank To Hendrix, ma Young ha spesso saccheggiato se stesso: qui comunque l’arrangiamento è vincente, le chitarra sono elettriche in luogo dell’acustica e le tastiere sono perfettamente inserite, il drumming è giusto quello che ci vuole. È questo il suono migliore dei Promise Of The Real, che d’altra parte durante i tour hanno dimostrato di riuscire meglio proprio nell’esecuzione dei brani degli anni settanta. Stand Tall è un’altra invettiva, stavolta anche in nome della salvaguardia del pianeta, ottimi gli intenti, meno il risultato dal punto di vista musicale di cui si lascia ricordare solo il finale distorto. Il secondo lato del primo disco (il vinile di The Visitor è doppio e si compone di tre facciate solamente, la quarta è nera e senza label e riporta i nomi di young e del gruppo e una penna d’aquila) si apre con la delicata e acustica Change Of Heart, quasi un brano parlato, sempre con un testo interessante e con un bel mandolino suonato da Micah Nelson, mentre il fratello si divide le parti di chitarra col padrone di casa, semplice e adeguato il lavoro di Anthony LoGerfo alla batteria. Carnival è una (troppo) lunga composizione dall’andamento spagnoleggiante – ho letto con perplessità una recensione in cui veniva paragonata a certe atmosfere di Santana –, sembra un lungo delirio ipnotico, con risate e atmosfere circensi, a partire dal testo, sinceramente non la necessità di averla fatta diventare così lunga non avendo mai una variazione, un cambio di atmosfera, di ritmo, salvo nel refrain in cui fa capolino anche il suono della calliope (una sorta di organo a vapore). I cori sono noiosi e le risate alla Mangiafuoco tra una strofa e l’altra dopo un po’ si fanno irritanti. A chiudere il secondo lato c’è un blues, un blues da ridere con Young che sembra improvvisare un testo su un giro di blues appunto e con i ragazzi che gli fanno il botta e risposta nel cantato di un testo casuale. Probabilmente si sono divertiti a farlo e bisogna cercare di divertirsi ad ascoltarlo: se non altro dura poco!
Terza ed ultima facciata: ad aprirla un brano dall’incedere epico, sembra un sunto tra tutte le cose discutibili che Young ci ha fatto ascoltare negli ultimi anni: Ci sono i fiati e c’è un’orchestra, ci sono un sacco di coristi e naturalmente i Promise Of The Real. Buon testo, di certo, di nuovo un invito a preservare il pianeta per i nostri figli, spiazzante l’arrangiamento, ma non da buttare: se non altro dura meno di quattro minuti. When Bad Got Good è brevissima, un invito a sbattere in galera qualcuno, molto probabilmente Trump, ma sembra l’unica cosa intelligente del brano. La perplessità sale.
Per fortuna a chiudere il disco arriva Forever, dieci minuti di inno alla terra, ad una terra al limite del collasso, un pianeta da dopobomba che ricorda la copertina di On The Beach, a metà strada tra le storie dell’autostoppista i Hitchhiker e dell’emarginato di Trashers: Neil canta con voce bassa e quando arrivano gli acuti lui e i Promise Of The Real ci stonacchiano su un po’, ma la costruzione non è male, di tanto in tanto l’elettrica lancia guizzi sul tessuto di base tracciato dall’acustica e dal mandolino (qui non accreditato ma perfettamente udibile).
Chissà, fosse stato un lungo EP di cinque brani, questo The Visitor avrebbe potuto essere un disco migliore.
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