STILLS & COLLINS – Everybody Knows

SS_JC_CD_cd4pgdigi_v5_EVERYBODY_KNOWS_cover_1[1][630]

STILLS & COLLINS – Everybody Knows (Cleopatra 2017)

Sono alcuni mesi che ascolto questo disco inaspettato (sì era stato annunciato ad inizio estate scorsa, ma nessuno si sarebbe mai atteso un duo del genere dopo tanti anni) e, ascolto dopo ascolto devo dire che sono sempre più convinto che si tratti di una delle più belle sorprese del 2017. Un disco di sano, morbido ed ispirato folk-rock come non se ne facevano da troppi anni. Non starò a dirvi della liaison tra il biondo chitarrista e la melodiosa folksinger, relazione celebrata in una delle più belle canzoni che Stephen abbia mai fatto uscire dalla sua sei corde, è storia risaputa. Quello che non è affatto risaputo sono i quaranta minuti di musica registrati freschi freschi per questo disco, certo, mancano i brani nuovi, ma è un dettaglio trascurabile data l’abbondanza di belle canzoni già nel repertorio dei due a cui si aggiungono poche cover di amici dotati.

Quello della Collins è un gradito ritorno, anche se per la verità è sempre rimasta in circolazione, la conferma importante, per quanto mi riguarda, è lo stato di buona salute di Stills invece. Stato di salute già anticipato l’ultima volta che lo si era visto sui palchi europei insieme a Crosby e a Nash, il texano aveva dato segnali di rinnovamento, apparendo particolarmente ispirato e motivato, poi c’erano stati i due dischi di rock/blues con i Rides, ma lo Stills di questo disco va ancora oltre, rispolvera suoni quasi perduti, quelli della Gretsch White Falcon, la chitarra con cui ha definito il suono di un’era, salvo metterla poi in naftalina per troppo tempo a beneficio della Fender Stratocaster, suonata sempre eccellentemente, ma mai così calda come la Gretch quanto a sonorità.

Diciamo subito che Everybody Knows non è un disco di duetti, ognuno dei due canta la sua parte e l’altro fornisce i cori e le armonie vocali (stiamo parlando di maestri del genere), salvo in qualche caso in cui la cosa diventa più corale, come nella title track, un brano di Leonard Cohen che i due cantano all’unisono ed hanno scelto come brano guida del progetto, rendendo un sentito omaggio al canadese appena scomparso e arrangiando il brano da par loro, con break strumentali in cui Stills infila i suoi assoli misuratamente sfruttando il tappeto di tastiere ordito da Russell Walden, abituale collaboratore della Collins.

Gli altri soci sono Kevin McCormick, bassista di casa Stills e il batterista Tony Beard, di nuovo della scuderia Collins. Arrangiamenti semplici, senza fronzoli, belli, toccanti, riusciti.

Il disco si apre con Handle It With Care, in cui, come la title track , nessuno dei due si fa predominante, una canzone nota ai frequentatori dell’ambiente, difficile dire se sia meglio dell’originale, anche se mi piace il modo in cui Judy Collins affronta la parte vocale che fu di Roy Orbison. Personalmente preferisco la successiva So Begin The Task, un classico di Stills che la eseguiva già con CSNY, prima di inciderla con i Manassas: perfetta e struggente nella sua perfezione, con la Gretsch protagonista. River Of Gold è un nuovo brano di Judy, e rispetto alle canzoni ad appannaggio del chitarrista, qui, nell’arrangiamento, predominano il piano e l’organo di Walden. Judy è una composizione risalente ai tempi in cui i due erano una coppia d’altro genere, una bella canzone apparsa solo in forma demo su quel disco d’archivio intitolato Just Roll Tape, qui diventa un brano fatto e finito, suonato e cantato come se Stills e Collins fossero ancora nel 1968. Della title track ho già detto, Houses è di nuovo un brano della cantante, originariamente inciso nel 1975, che fa da preludio a tre cover altisonanti, brani molto noti di autori altrettanto blasonati: il duo li affronta in modo spettacolare e gli applausi ideali esplodono da soli. Reason To Believe e Girl Form The North Country potrebbero far parte di quel pugno di canzoni scelte da CSN per l’abortito disco che avrebbero dovuto registrare sotto l’egida di Rick Rubin, comunque il risultato è da brivido: il brano di Tim Hardin segue il sentiero collaudato del sound costruito sulla Gretsch e sull’hammond, per il classico dylaniano l’opzione è più acustica ma ugualmente riuscita. La terza cover è un brano dell’epoca d’oro del folk rock, un brano che la Collins aveva già fatto suo in un disco in cui Stills l’accompagnava solo alla chitarra e che s’intitolava proprio come la canzone, si tratta di Who Knows Where The Time Goes, quella di Sandy Denny. Qui la voce della Collins è davvero unica, ricordiamoci che è alle soglie dei 78 anni, il piano fa la parte del leone, ma Stills infila qualche rispettosa zampata di chitarra senza rubare la scena.

Il finale è invece tutto suo, un ripescaggio di Questions, una composizione che non aveva mai trovato la sua giusta collocazione, era apparsa sull’ultimo posticcio disco dei Buffalo Springfield, passando quasi inosservata tanto che poi era diventata il finale di Carry On su Deja Vu di CSNY, tornata a fare capolino nelle setlist dei concerti degli ultimi, eccola qui, sontuosa e baciata dall’arrangiamento che le compete, con belle chitarre – direi sia la Gretch che la Strato in questo caso – l’organo e le voci che la rendono nella sua versione definitiva.

Tags:

Non è più possibile commentare.