MACHINE MASS – Plays Hendrix

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MACHINE MASS – Plays Hendrix (Moonjune Records 2017)

Suonare Jimi Hendrix… credo non ci sia musicista, soprattutto chitarrista che non sia esente da questa tentazione che spesso si può rivelare insidiosa. Come è insidioso comunque sempre cimentarsi con altri autori se non si ha l’idea fulminante di come affrontarli.

I Machine Mass sono una formazione belga che calca le scene da un po’ di tempo ed ha già altri dischi al proprio attivo su etichetta Moonjune, dischi all’indirzzo di un prog-jazz abbastanza free e interessante. Devo dire che quando mi è capitato questo loro omaggio al mancino di Seattle sono rimasto incuriosito, e non poco: a giudicare dalla confezione il disco si presentava succulento, bella copertina con tanto di ripresa del logo/firma di Hendrix usato ormai per tutte le ristampe e come marchio dell’etichetta di famiglia. Purtroppo, come insegnava il vecchio Bo Diddley, “You can’t judge a book by the cover”!
Il chitarrista Michel Delville e soci danno l’impressione di aver voluto stravolgere eccessivamente le composizioni di Hendrix, elaborandole all’eccesso, rendendole spesso irriconoscibili, tranne laddove ci sono dei riff che non è possibile tralasciare o ignorare.

Inoltre, non dimentichiamolo, i brani di Jimi erano canzoni e qui, da buon gruppo jazz i Machine Mass li fanno diventare composizioni strumentali. E questo passi, non sono i primi a fare operazioni del genere, ma l’impressione è che al risultato finale manchino la rabbia, l’urgenza, la grandezza immensa delle versioni originali.

E, last but not least, l’originalità. Ascoltate Little Wing o Third Stone From The Sun: io non riesco a ritrovarmici, dove sono finite le composizioni di Hendrix?

Certo, con Purple Haze le cose vanno decisamente meglio, ma lì c’è quel riff di chitarra che se venisse eliminato da qualunque cover finirebbe per annientarla: la versione che ne danno i Machine Mass è apprezzabile, come anche il vestito di cui è ricoperta Spanish Castle Magic, lontano però anni luce da qualunque cosa Hendrix avesse potuto concepire.

Fire viene proposta in un’ossessiva versione quasi industriale che lascia intendere solo nella parte centrale il riff originale del brano, un po’ meglio vanno le cose con Voodoo Chile, ma il merito è in gran parte del brano che viene sviluppato partendo dalla su struttura originale, cosa che avrebbe giovato anche nell’approccio al resto del materiale qui incluso. Burning Of The Midnight Lamp dura poco più di tre minuti e offre una bella prova alle tastiere di Antoine Guenet, che del gruppo è il più recente acquisto. Segue una lunghissima You Got Me Floatin’ sostenuta dal drumming eccessivo ed eccessivamente preciso di Tony Bianco su cui Delville si prodiga in note distorte, financo citando l’assolo di Wild Thing suonato da Hendrix a Monterey che era già a sua volta una citazione dotta; poi la chiusura, breve, canonica e affidata a The Wind Cries Mary con tanto di voce campionata dell’autore.

Ricordo di aver letto in varie occasioni che se fosse vissuto più a lungo Hendrix sarebbe approdato alla musica jazz, che quella avrebbe potuto essere lo sbocco della sua vita artistica e musicale. Alla luce di quanto ho ascoltato in questo disco penso di poter affermare che in fondo sia stato meglio che Jimi se ne sia andato in quel momento se la sua prossima mossa sarebbe stata all’insegna di una musica cervellotica e senza convinzione come quella che si ascolta in questo tributo.
Peccato, perché in precedenza altri artisti Moonjune si erano cimentati con successo col repertorio di Hendrix, pensiamo a Boris Savoldelli e alla sua genialissima Crosstown Traffic, ai Doubt con Purple Haze.

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